Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

La dimensione territoriale regionale nelle scelte dell’Assemblea Costituente

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di: Paolo Loreto

EyesReg, Vol. 11, N. 1, Gennaio 2021

Il dibattito sull’individuazione delle Regioni

Nelle fasi embrionali del dibattito il relatore della Seconda Sottocommissione, Ambrosini, introdusse le problematiche aperte dalla questione regionale, ovvero un ripensamento delle delimitazioni territoriali, affermando che: “In Italia esistono regioni geograficamente e territorialmente determinate; ma bisogna tener presente la necessità che l’ente regione si istituisca in modo da essere vitale e quindi potrebbe sorgere la necessità di non seguire meccanicamente il criterio storico, ma di addivenire a fusioni o cambiamenti consigliati dalla valutazione di particolari interessi” (AA.VV. 1970, p.822).

Secondo Paola Bonora (1984) (docente di geografia presso l’università di Bologna), Ambrosini qui si poneva il problema di stabilire dal punto di vista giuridico a quale potere spettasse la decisione di tali cambiamenti alle dimensioni delle Regioni, affrontando la questione in termini funzionali: “egli ipotizza una regionalizzazione che sappia tener conto di esigenze economiche locali”. Ambrosini continuava a riferirsi ai compartimenti statistici come a Regioni, geograficamente e tradizionalmente determinate, basandosi su un criterio storico per la loro individuazione: il dibattito in questo momento dell’Assemblea non mise mai in dubbio questa terminologia utilizzandola come base dei lavori. Si ha notizia solo di alcune voci di Costituenti contrari, come Luigi Einaudi (PLI), che negò ad esempio la storicità dei confini statistici, e riportò l’esempio delle Langhe: il Piemonte fu una creazione di Napoleone I «che fuse insieme venticinque vecchie provincie nelle quattro tradizionali di Torino, Cuneo, Alessandria e Novara, che per qualche tempo si chiamarono “divisioni militari” e poi “provincie» (Bonora, 1984). Si nota in queste osservazioni di Einaudi, una protesta verso le delimitazioni territoriali considerate astoriche, prive di considerazione della conoscenza popolare, egli auspicava invece più moderne e funzionali delimitazioni territoriali.

Per tutto il 1946 la questione dei confini territoriale delle Regioni venne dibattuta nella Seconda Sottocommissione, sollecitata dalle richieste che provenivano direttamente da gruppi locali. L’essenzialità del problema fu la suddivisione regionale in compartimenti statistici, unica suddivisione territoriale presa in considerazione in Commissione, ma nessuno avanzava proposte che superassero questa partizione scolastica; le interrogazioni erano volte semmai ad individuare enti regionali minori, sottomultipli di quelli tradizionali. Il dibattito sulla regione proseguì all’interno del Comitato dei dieci (comitato speciale all’interno della Sottocommissione istituito per discutere l’ordinamento regionale), ritornando in Commissione attraverso la relazione di Ambrosini a novembre; egli analizzò i progetti e sostenne in merito al numero delle regioni, che le proposte avanzate tendevano esclusivamente alla creazione di nuove aggregazioni regionali.

 Il Comitato dei dieci scelse in fine di privilegiare il criterio della tradizionale divisione geografica (il riferimento erano i compartimenti statistici in cui furono divisi i dati del censimento del 1871) (Marties 2012), pur aprendo alla possibilità per le popolazioni interessate di proporre il distacco o l’aggregazione ad una regione, oppure di crearne una nuova. In conclusione, Ambrosini elencò nella sua relazione le regioni: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Liguria, Emilia, Toscana, Umbria; Marche, Lazio, Abruzzi e Molise, Campania, Puglia, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna e Valle d’Aosta (Ambrosini 1946).

Secondo Pizzetti, la spiegazione sull’origine di questa divisione in compartimenti statistici della penisola è chiara e la ragione per la quale sia quella assunta come tradizionale: la “[…] tradizione italiana in  materia  di  regioni […] iniziò  con  la  ripartizione  del  territorio  del  Regno  di  Italia  in  14 compartimenti  fatta  da  Pietro  Maestri  nel  1864  ai  fini  delle  statistiche  nazionali,  sociale  ed economiche  per  definire  le  diverse  tipologie  di  produzione  del  territorio  del  nuovo  Regno,  che non comprendeva però l’allora ancora esistente Stato Pontifico. La divisione in 14 compartimenti fatta dal Maestri fu poi ripresa da Alfeo Pozzi che nel 1870 fece un manuale ad uso scolastico dal titolo L’Italia nelle sue presenti condizioni fisiche, politiche, economiche e monumentali”. In questo libro che ebbe larga diffusione nelle scuole con molte ristampe successive, Pozzi aggiunse all’elenco precedente delle Regioni fatto da Maestri anche la Regione Lazio, ormai diventata parte integrante dello Stato italiano, portando così a 15 il numero totale delle regioni. Il manuale di Pozzi fu usato per decenni nelle scuole del Regno d’Italia contribuendo a formare l’immaginario collettivo geografico italiano,  e  in  parte  anche  le sue  caratteristiche economiche e monumentali, furono insegnate sulla base di quella ripartizione regionale (Pizzetti, 2015).

Tornando ai dibattiti all’interno della Seconda Sottocommissione, si aprì poi una fase di apertura alle possibili variazioni alle aggregazioni territoriali. Il PCI fu quello maggiormente contrario all’introduzione di queste variazioni, affiancato da una parte del PSI e più avanti anche dalle forze di destra: questo atteggiamento era motivato politicamente, le sinistre spingevano per un sistema istituzionale rivoluzionario e speravano di ottenerlo attraverso la consultazione elettorale. Da questa idea derivava l’atteggiamento favorevole ad una regionalizzazione di tipo tecnico-amministrativo del PCI, in particolare Grieco ribadiva la necessità di una riforma che combattesse sì il centralismo, ma attraverso enti regionali privi di potestà legislativa, poiché considerava un errore l’estensione del modello autonomista siciliano alle altre regioni (Grieco, 1946); inoltre, in continuità con la teoria di Gramsci di una unità di lotta tra operai del Nord e contadini meridionali, la sinistra vedevano negativamente il frazionamento del Paese in enti con una propria capacità decisionale. Veniva da loro accettato in maniera acritica e riproposto come valido e immutabile, la vecchia divisione in compartimenti statistici del Paese.

Infatti, quando il repubblicano Conti propose attraverso un ordine del giorno, la nomina di tre relatori per riferire sulle proposte di modifica della ripartizione geografica, Grieco (PCI) si dichiarò contrario poiché bisognava opporsi alla tendenza, a suo dire guidata da interessi particolaristici, che avrebbe allontanato dal significato originale di autonomia regionale. L’ordine del giorno di Conti venne comunque approvato e i tre relatori (Codacci Pisanelli, Fuschini e Lussu) vennero incaricati di discutere le seguenti nuove formazioni territoriali: Salento, Daunia, Cilento, Emilia, Friuli, Molise e Sannio.

La DC nel dibattito assembleare manteneva un’impostazione sturziana, ritenendo giusto l’ampliamento degli ambiti decisionale della Regione e dichiarandosi favorevole a suddividere il territorio in numerosi centri di governo.

Quindi nei dibattiti in Seconda Sottocommissione dal 16 al 18 dicembre 1946, la DC propose l’individuazione di ulteriori aggregazioni territoriali, ponendosi in contrasto con le teorie azioniste.

Il Partito d’Azione attraverso Lussu, palesò da subito scetticismo per ipotesi che trascuravano il contesto sociale già presente sul territorio; sottolineò la necessità di verificare le basi popolari del regionalismo affermando che “uno degli elementi più indispensabili per costituire una regione è la volontà concorde degli interessi” (AA.VV. 1970, p.1570). Lussu fu l’unico nel dibattito a palesare la consapevolezza del rischio, che si arrivasse ad una divisione topografico-politica, lasciandosi guidare esclusivamente da criteri topografici (AA.VV. 1970, p.1568).

Ma la visione degli azionisti sulle autonomie era quella più vicina al regionalismo; comunque, essi anche se si videro esclusa la loro proposta federalista, ne conservarono la portata critica, infatti Lussu incaricato di relazionare sul Molise, ne propose subito l’autonomia riconoscendone peculiarità economiche e tradizionali. Anche Fuschini e Codacci Pisanelli, che avevano rispettivamente il compito della relazione sulla proposta di istituire la regione Friuli e Daunia, puntarono tutto sul criterio dell’autosufficienza finanziaria (AA.VV. 1970, p.1578). Riguardo queste relazioni su nuovi possibili comparti, il deputato della DC Ezio Vanoni, definì “invecchiate” le valutazioni di carattere economico fatte dai relatori e dichiarò che “l’impressione che tutti i fautori della costituzione di nuove Regioni si preoccupino di raccontare episodi storici, come quello delle Forche Caudine, e trascurino di dimostrare l’esistenza di un’entità territoriale che per ragioni di dialetto, di economia e di altra natura pratica sia dotata delle caratteristiche particolari che possono giustificare la sua erezione in Ente regionale. […] Ad esempio, l’argomento di difficoltà di comunicazione fra Campobasso e l’Aquila può ritenersi sufficiente per non mettere neppure in discussione la possibilità di riunire il Molise all’Abruzzo” (AA.VV. 1970, p.1551).

Questi brevi cenni, secondo Paola Bonora, fotografano in maniera nitida l’andamento del dibattito prima nelle Commissioni preparatorie, poi in Assemblea, documentandone la superficialità nell’approccio all’individuazione di nuovi compartimenti territoriali. I relatori introducevano parametri sempre diversi, creando nelle stesse fazioni politiche disaccordi e rendendo il dibattito estremamente complesso. I nuovi progetti regionalisti non catturano l’attenzione nel dibattito che venne dominato solamente dalle ambizioni di politiche, non a caso Rotelli sostenne che “i regionalisti più agguerriti si preoccupavano essenzialmente di far conoscere le regioni che stavano loro a cuore” (Rotelli 1977), ovvero quelle del loro bacino elettorale.

Nonostante tutto, tra il 16 e il 17 dicembre del 1946 la Sottocommissione in prima battuta approvo l’istituzione di Molise, Salento, Emilia-Romagna (in due compartimenti: Emilia-Lunense ed Emilia e Romagna) ed il Friuli-Venezia Giulia, concludendo così una prima fase del dibattito (Bonora 1984).

Carlo Desideri riferendosi ai criteri adoperati per l’individuazione delle regioni in questa fase dibattimentale, si è chiesto se: “esistevano altre vie oltre quella che fu seguita?”; è difficile da stabilire: i Costituenti lamentarono la mancanza di tempo per intraprendere nuove vie con nuovi studi e ricerche, né le conoscenze geografiche dell’epoca furono di grande aiuto con il rischio di aprire dibattiti interminabili. In più la fretta di stabilire i compartimenti, fu dettata dal timore che il ricorso alla volontà popolare avrebbe scatenato tensioni campanilistiche e localismi, mentre al contrario il regionalismo sarebbe dovuto essere il tentativo di supere questi ultimi.

Infine, la scelta del criterio tradizionale fu fatta anche per contrastare i tentativi in seno all’assemblea di creare regioni sempre più numerose e simili alle province.

Per i Costituenti regionalisti, inserire da subito le regioni all’interno del testo della Costituzione, rappresentava una garanzia ed un fondamento territoriale reale e definito, per costruire enti politici che avrebbero caratterizzato la struttura regionale della repubblica.

 Il tentativo era quello di andare oltre le chiusure del sistema municipale, per creare aree di governo più vaste, i Costituenti mostrarono così secondo Desideri, una certa progettualità, segnando linee guida tutto sommato chiare (Desideri 2015).

Era la stessa Costituzione quindi a dover riconoscere le regioni come entità storico geografiche esistenti, mettendole quindi su un piano completamente diverso rispetto agli altri enti; solo le regioni sarebbero state infatti elencate singolarmente all’interno della Costituzione.

Un altro aspetto fondamentale del dibattito riguardava le dimensioni delle regioni. Esse dovevano costituire le parti di uno Stato regionale con territori di dimensioni adeguate a questo scopo, da questo punto di vista i timori relativi a divisioni del territorio erano giustificati: uno Stato regionale con unità territoriali eccessivamente frammentate non avrebbe avuto un aspetto credibile e solido. Fu questa la scelta di avere regioni più grandi, che “rappresentavano il naturale punto di riferimento di ogni proposta di tipo regionale” (Rotelli 1977), giustificando l’individuazione del modello dei compartimenti statistici.

In fase dibattimentale i Costituenti, fecero quindi la scelta di assumere le regioni storiche come realtà territoriali preesistenti, di cui i compartimenti statistici ne garantivano la delimitazione dei confini. Questa decisione di partenza rappresentò il presupposto necessario dell’idea di regione politica con poteri legislativi: sarebbe risultato insensato un impianto istituzionale così impegnativo, se le regioni non avessero avuto un fondamento storico e una dimensione territoriale adeguata (Desideri 2015).

La conclusione dei lavori

Nel gennaio del 1947 riprese la discussione sulla questione regionale in Commissione per la Costituzione in seduta plenaria. Il progetto che doveva essere discusso era già stato approvato dalla Seconda Sottocommissione e presentava l’introduzione di nuove aggregazioni regionali; in particolare, vennero previste 22 regioni: Piemonte, Lombardia, Trentino Alto-Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia, Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio; Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Salento, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta) (AA.VV. 1947c, 31/1/47).

Le novità suscitarono molte polemiche, soprattutto all’interno del Partito comunista (come abbiamo visto contrario all’autonomismo regionale), che frenò i lavori per un intero semestre.

La contrarietà al progetto si rese palese il 17 gennaio quando Palmiro Togliatti tentò di restringere gli attributi giuridici del nuovo ente attraverso una mozione che recitava: “la Commissione dei 75 d’accordo sulla necessità di un ampio decentramento amministrativo [a cui, a seguito di obiezioni, il presentatore aggiunge regionale] e sul più ampio sviluppo di autonomie locali; d’accordo sulla necessità di ampia autonomia per la Sicilia, la Sardegna e le zone plurilingue; è però contraria a che vengano introdotti nella Costituzione elementi anche indiretti o attenuati di federalismo” (AA.VV. 1970, pp. 128-129).

La proposta venne respinta in quanto avrebbe rappresentato un arretramento rispetto ad un progetto già discusso ed è sintomatica dell’atteggiamento di chiusura nei confronti del regionalismo da parte del Partito comunista.

Pochi giorni dopo Grieco, attraverso la presentazione di nuovo emendamento, rafforzò la posizione contraria della sinistra, chiedendo che venisse precisato che non si sarebbe permessa la creazione di nuove Regioni, che queste rimanevano quelle storiche (art. 18 del progetto), e si auspicavano che seguendo l’art. 20 del progetto, i nuovi spazi territoriali si sarebbero potuti introdurre solo dopo referendum popolari.

I deputati comunisti si opposero così alle intese autonomistiche così tanto evidenti nella fase della resistenza, e alle nuove regioni in luogo di quelle storiche, appellandosi alla volontà popolare; nei fatti questo atteggiamento del PCI incontrò il consenso delle destre, fortemente contrarie al principio dell’autonomia.

Il dibattito sulle autonomie riprese nella seconda metà di maggio, ma i Costituenti riguardo alle Regioni riproposero gli stessi temi dei dibattiti precedenti; presagendo svolte politiche favorevoli, la DC tentò di rinviare il dibattito, ma la sinistra si oppose riuscendo a far rispettare il calendario dei lavori. Il solo fatto di discutere durante una crisi governativa (crisi ministeriale del terzo gabinetto De Gasperi) il regionalismo, influenzò direttamente il dibattito (tesi sostenuta da Rotelli, 1977). La DC si schierò ormai apertamente con le destre, muovendosi secondo la logica di tipo verticistico, per cui le regioni sono enti di potere periferico e l’accrescimento numerico di questi organismi territoriali era ritenuta una garanzia politica (Bonora 1984).

IL 7 giugno 1947 si intravide una svolta all’interno del PCI, difronte all’aula a riferire fu Grieco, e il fatto stesso che l’oratore delegato fosse lui, era il sintomo di un allargamento della prospettiva comunista verso il concetto di autonomia: egli affermò che non c’erano più posizioni preconcette nel partito, e che l’ordinamento regionale non rappresentava una minaccia per l’unità dello Stato; Grieco si dichiarò inoltre favorevole ad accettare organismi dotati di facoltà “di integrazione ed attuazione delle leggi generali” (AA.VV. 1947c, p.4542); concessione che i comunisti mai avevano prospettato in precedenza. Era senza dubbio un punto di svolta all’interno dei dibattiti sulla regione, anche se negli Atti della seduta si legge che Grieco puntualizzò di essere ancora difronte ad “un progetto che mal nasconde una sua tendenza federalista” (AA.VV. 1947c, pp.4542 4543).

Nelle ultime sedute dall’ottobre 1947, un gruppo di deputati dei partiti socialista e comunista, opponendosi in via definitiva all’istituzione di nuove regioni, chiese di formalizzare definitivamente il ritaglio statistico (AA.VV. 1947c, p.3602). Le motivazioni della richiesta loro dire, erano un pericolo di antiregionalista, e a nome dei firmatari si leggono negli Atti queste parole di Lami Starnuti: “poiché noi non vogliamo né rinviare alla legge la ripartizione regionale – in quanto ciò avrebbe impedito la sollecita creazione dell’Ente Regione decisa dalla Costituzione – né impedire che nel prossimo futuro, avvengano correzioni territoriali o creazioni di nuove regioni, così abbiamo proposto che, intanto , le regioni da istituire in attuazione sollecitata, se non immediata, delle norme costituzionali siano quelle che rispondono alla nostra tradizione e che per il futuro sia fatta salva la procedura di istituire nuove Regioni o per addivenire a modificazioni di territorio” (AA.VV. 1947c, p.3604).

Anche i democristiani furono d’accordo con il PCI nel sollecitare l’approvazione di un ritaglio che essi stessi giudicavano obsoleto, dichiarando di non possedere le necessarie informazioni per la determinazione delle Regioni, rinunciando a promuovere indagini. Lo stesso Togliatti, nonostante l’ispirazione popolare del Partito, ritenne difficilmente accettabile la consultazione diretta della popolazione sulla questione regionale, intervenendo così a favore dell’ordine del giorno (AA.VV. 1947c, p.3615).

Questo periodo cruciale nei lavori della Costituente, viene descritto così da Paola Bonora: “si chiude una vicenda che, nata sull’onda di un diffuso movimento popolare decisamente antagonista del centralismo, finisce per risolversi in un disegno funzionale al centralismo […]. Si annullano in un ordinamento concordemente definito ambiguo e compromissorio le valenze propositive di cui la guerra di liberazione, i CLN, i più avanzati gruppi culturali e politici si erano fatti portatori” (Bonora 1984, p.92).

Gli ultimi Atti del dibattito assembleare confermarono la funzione garantista di potere che la Costituente consegnava alle regioni.

Il testo approvato in Sottocommissione il 31 gennaio 1947 coordinato dal Comitato di redazione, venne presentato in Assemblea prima della votazione finale il 20 dicembre 1947, e così recitava: «Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle d’Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi e Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna». Rispetto alla bozza il numero delle regioni era sceso a 19; fu cambiato il nome di Lucania in Basilicata, il Salento fu accorpato alla Puglia, vennero unite Emilia e Romagna, e l’Abruzzo con il Molise.

Le disposizioni transitorie (VIII e IX disp. Trans. E fin.) stabilirono che le elezioni dei Consigli regionali avrebbero avuto luogo entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione (termine prorogato al 31 dicembre 1950 e che ne successivi tre anni la Repubblica avrebbe dovuto adeguare le leggi alle competenze legislative regionali e alle autonomie locali.

Nella realtà questo processo di realizzazione della regione, come è noto durò oltre vent’anni, a causa della tendenza ad  una certa continuità con il passato: una propensione alla conservazione del centralismo dell’ordinamento precedente, nonostante il volere dei Costituenti (Bin 2018, p.78).

Paolo Loreto

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