Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Titolo V: questo sconosciuto

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di: Carlo Tesauro

EyesReg, Vol. 10, N. 6, Novembre 2020

Introduzione

La recente crisi pandemica ha evidenziato notevoli carenze organizzative ed operative in tutto il mondo, principalmente connesse con la grave sottovalutazione del rischio. Tutti ricordiamo che il primo apparire dell’infezione era stato inizialmente etichettato, a livello planetario, come un fenomeno poco più grave di una semplice influenza, nonostante i primi riscontri cinesi, e poi italiani, fornissero indicazioni completamente diverse.

Chi si interessa di problemi territoriali comprende immediatamente come anche in Italia, nonostante i lusinghieri giudizi manifestati dalla comunità internazionale, si siano manifestati problemi ed anomalie che potevano essere evitati utilizzando modalità e criteri operativi differenti.

Nel nostro Paese, infatti, la gestione operativa del Servizio Sanitario è interamente demandata alle Regioni, motivo per cui ci si sarebbe aspettato che proprio questi Enti rappresentassero il riferimento operativo principale basandosi su precise linee guida impostate dal governo centrale che, in caso di inadempienze o omissioni, avrebbe potuto (e dovuto) poi far ricorso all’uso dei poteri suppletivi.

Linee guida fortemente stringenti, vincolate dall’uso di parametri di valutazione oggettiva facilmente riscontrabili, avrebbero permesso alle Regioni di operare in modo più semplice e lineare, con la possibilità di ricorrere in caso di necessità al supporto di apparati nazionali quali la Protezione Civile. Viceversa, fin dai primi passi il governo centrale ha avocato a sé l’intera gestione operativa, affidando alla Protezione Civile, unica struttura abilitata per simili situazioni, il ruolo operativo primario favorendo, di fatto, ingorghi e sovrapposizioni di competenze potenzialmente dannose per la rapidità e l’efficacia degli interventi.

La gestione della prima emergenza

Il monitoraggio

I dati relativi alla circolazione del virus sono stati diffusi a partire dall’ultima settimana di febbraio e mostravano una tendenza alla crescita che seguiva uno schema inequivocabilmente esponenziale, passando da 127 casi a 6.387 nuovi casi nell’arco di due settimane (dal 24 febbraio all’ 8 marzo) con un aumento medio di circa 450 casi al giorno. Questo valore, a livello nazionale, si traduce in un incremento medio di poco inferiore a un caso ogni 100.000 abitanti (0,076% per la precisione). Disaggregando i dati a livello regionale, però, si riscontrano un unico picco superiore alla media di oltre tre volte (0,24% in Lombardia) ed un caso anomalo di oltre il doppio della media (0,18% in Emilia Romagna).

In questa prima fase il Governo istituì le prime “zone rosse”, ovvero aree di blocco totale delle attività non indispensabili e divieto assoluto di ingresso o uscita dal territorio di competenza. Questo provvedimento coinvolse singoli comuni, o piccole aggregazioni di essi, nei quali erano stati riscontrati numeri abnormi di casi ma, siccome la curva di incremento a livello nazionale non sembrava cambiare, si decise di procedere al “lockdown” nazionale dal 9 marzo (zona rossa per tutto il territorio) con conseguente blocco totale delle attività non indispensabili e divieto assoluto di ingresso o uscita dal domicilio se non per motivi ammissibili ed autocertificati. La Figura 1 (e la Tabella 1 in appendice) mostra la diffusione di nuovi casi nelle regioni italiane (medie mobili centrate su due settimane) in quattro momenti temporali consecutivi. Le quattro finestre di osservazione sono a cavallo della data di dichiarazione del lockdown (9 marzo 2020), e mostrano chiaramente la progressiva diffusione della pandemia (in giallo e in arancione le regioni con valore rispettivamente doppio e triplo della media nazionale iniziale).

Figura 1: Nuovi casi nelle Regioni in fase iniziale della pandemia

Il lockdown

La Figura 2 (e la Tabella 2 in appendice) riportano i nuovi casi, che precedono l’inizio della cosiddetta “fase 2”, ovvero durante il periodo in cui si consente l’uscita dal domicilio, la riapertura delle attività commerciali e la libera circolazione sul territorio regionale.

Figura 2: Nuovi casi nelle regioni prima della fase 2

Si osserva facilmente come già dalla prima finestra, 30 marzo – 12 aprile, la situazione appaia sostanzialmente differente, ma si dovrà attendere fino al 3 maggio (dopo Figura 2 e Tabella 2) perché la fase di massimo rigore possa essere dichiarata conclusa e si possa definire la tempistica per la definitiva riapertura dei confini nazionali e di tutte le attività (2 giugno). In quest’ultima fase il contagio non era del tutto scomparso ma il numero degli infetti e gli indici calcolati mostravano un andamento fortemente decrescente.

La seconda ondata

Il monitoraggio

Come ampiamente previsto la stagione estiva ha concesso una tregua totale nel processo di diffusione del contagio, ma come altrettanto ampiamente previsto l’inizio della stagione autunnale ha favorito l’avvio della cosiddetta seconda ondata che, nel totale rispetto delle previsioni, si è manifestata con aggressività notevolmente superiore alla precedente.

Rispetto al periodo primaverile però il ciclo autunnale si è rilevato profondamente diverso, poiché nelle prime dieci settimane, la durata della precedente fase 1, si è rilevato un incremento di oltre il 350% dei casi a fronte di una riduzione dei ricoveri ospedalieri di circa il 10% che raggiunge il 20% per i reparti di terapia intensiva. Queste differenze, probabilmente dovute al sistema di tracciamento combinato ad un approccio terapeutico di maggior efficacia, ha modificato sostanzialmente il focus di base spostando l’attenzione dalla disponibilità di posti in terapia intensiva alla necessità di posti in altri reparti (Malattie Infettive, Pneumologia).  Il sistema di tracciamento però è rapidamente entrato in crisi con il crescere dei volumi da trattare e parte del vantaggio terapeutico si è perso con esso, lasciando quindi il Sistema Sanitario ad affrontare una situazione che tende a ritornare alle caratteristiche della primavera precedente ma con numeri drammaticamente superiori.

Le chiusure regionali

La modalità di intervento scelta per affrontare la seconda ondata è stata profondamente diversa dalla precedente in termini strategici, poiché si è scelto di evitare l’intervento a scala nazionale preferendo una modalità operativa a livello regionale basata sull’uso di indicatori specificamente definiti. In termini politici, tuttavia, l’approccio è rimasto inalterato con la gestione ancora saldamente detenuta dal Governo.

Oltre all’approccio politico alla gestione del problema, però, anche la gestione della tempistica sembra rappresentare un problema con conseguenze che possono complicare notevolmente la situazione.

Riproponendo lo schema di analisi utilizzato per la fase 1, infatti, e focalizzando l’attenzione sul primo periodo di cinque settimane a partire dalla prima settimana di autunno (21 settembre), pur volendo considerare una sostanziale modifica dei criteri di soglia ricalcolandoli sulla nuova serie di dati per tener conto delle mutate condizioni del problema, appare evidente come fosse necessario anticipare notevolmente gli interventi per evitare di dover riproporre un nuovo lockdown nazionale. Infatti, i dati relativi alla diffusione del virus, nelle due settimane che precedono l’equinozio di autunno, presentano un incremento medio di circa 0,15 casi ogni 100.000 abitanti, ovvero poco più del doppio del valore riscontrato in fase 1. Disaggregando i dati a livello regionale si riscontra un unico caso anomalo nella prima finestra di osservazione, si veda la Figura 3 (e la Tabella 3 in appendice).  Anche per la seconda ondata si evidenziano in giallo e in arancione le regioni con valore rispettivamente doppio e triplo della media nazionale iniziale.

Figura 3: Nuovi casi nelle regioni all’inizio seconda ondata (dati di Tab. 3 in appendice)

Conclusioni

In questo studio si è scelto di utilizzare esclusivamente un banale approccio territoriale nell’analisi dei dati diffusi quotidianamente dalla Protezione Civile, molto meno complesso di quello che sembra essere stato usato dalle Autorità nella gestione della seconda ondata.

Ne consegue che non sono stati presi in considerazione dati o riferimenti a: modalità di diffusione del contagio; organizzazione ed erogazione dei servizi sanitari; dotazione di presidi medico-chirurgici disponibili sul territorio; tutti gli altri possibili interventi atti a prevenire o contenere la diffusione dell’epidemia nelle probabili ondate successive. Questa scelta è stata adottata per evitare qualunque riferimento agli argomenti connessi con le moltissime polemiche sorte in ambito nazionale su questi aspetti della gestione dell’emergenza.

Come sottolineato nella introduzione, il lavoro parte dalla considerazione che, basandosi sul Titolo V della Costituzione, l’erogazione del Servizio Sanitario Nazionale è totalmente impostata su base regionale, mentre il Governo detiene le funzioni di indirizzo generale e di controllo. Ci si attendeva quindi una gestione completamente diversa del problema, basata sul coordinamento Stato-Regioni dove il Governo stabiliva linee operative, estremamente semplici e lineari, e le Regioni emanavano i provvedimenti necessari. Il ricorso al supporto della Protezione Civile poteva essere poi richiesto dalle singole Regioni per affrontare situazioni critiche particolari.

Al Governo sarebbe quindi spettato l’onere di valutare il grado di rischio al livello nazionale, indicando alle Regioni i criteri sulla base dei quali provvedere ad emanare le Direttive di intervento per limitare la diffusione del contagio ed ottimizzare l’erogazione dei servizi sanitari. Ad esempio, un paio di indicatori elementari, come il numero degli infetti e la sua variazione, utilizzati in questo lavoro, se calcolati a livello territoriale e correttamente analizzati, avrebbe già fornito informazioni sufficienti per la dichiarazione e la gestione delle cosiddette “zone rosse”. Indicatori più articolati, che valutassero anche la capacità dei sistemi sanitari locali, avrebbero potuto fornire criteri di efficacia assoluta con notevoli vantaggi in termini di efficacia operativa e minimizzazione degli effetti socio-economici.

Lo stesso Presidente del Consiglio, illustrando gli interventi di contenimento per la seconda ondata che finalmente operavano su base regionale, ha esplicitamente sottolineato che quell’approccio era stato scelto per evitare effetti che l’economia nazionale non sarebbe stata in grado di affrontare. La decretazione di aree a diversi livelli di intervento articolata su base regionale, in funzione della effettiva necessità, avrebbe dovuto ridurre sostanzialmente gli effetti socio-economici rendendoli meno onerosi.

Viceversa, il DPCM (Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri) è diventato lo strumento unico per la gestione della pandemia, sia nella fase iniziale sia nella seconda ondata con criteri operativi che, seppur profondamente diversi, non sono riusciti a limitare i temuti effetti negativi.

Infatti, se nella prima fase non si è tenuto conto delle differenti condizioni createsi sul territorio, con il risultato di aver generato effetti negativi devastanti sulla economia nazionale, nella seconda fase invece,  pur operando a livello territoriale – ma sempre con provvedimenti emanati dal Governo, si sono utilizzate tempistiche assolutamente asincrone rispetto alle evidenze empiriche.

Il risultato ottenuto è che nel primo ciclo della pandemia è stato necessario predisporre un supporto al sistema economico dell’intero Paese invece che per parte di esso, mentre nel secondo il ritardo nei tempi di intervento ha ingigantito il fenomeno diffusivo, annullando sostanzialmente tutti i vantaggi derivanti dal tracciamento e dai protocolli terapeutici riportando il Paese sulla soglia del lockdown nazio-regionale.

Se poi si utilizza come chiave di lettura complessiva la dichiarazione della Cancelliera Merkel al Consiglio Europeo del 29 ottobre

Avremmo dovuto agire prima, ma per i cittadini non sarebbe stato facile accettarlo. Hanno bisogno di vedere i letti degli ospedali pieni

non contestata da alcun leader europeo, appare evidente come il parametro principale del processo decisionale non sia la salute pubblica ne’ tantomeno la difesa del sistema economico.

Carlo Tesauro, IRBIM-CNR

Riferimenti bibliografici

AA.VV. (2020), Merkel: “Bisognava chiudere prima ma la gente deve vedere i letti pieni”, La Stampa, 30/10/2020. https://www.lastampa.it/esteri/2020/10/30/news/merkel-bisognava-chiudere-prima-ma-la-gente-deve-vedere-i-letti-pieni-1.39477443

Beria P. (2020), La pandemia della mobilità, EyesReg, 10, 3.

Marino D. (2020), Sanità territoriale e gestione della crisi da Covid-19: le regioni italiane e il caso Lombardia, EyesReg, 10, 5.

Musolino D., Rizzi P. (2020), Covid-19 e territorio: un’analisi a scala provinciale, EyesReg, 10, 3.

Palazzo L., Ievoli R. (2020), Le performance sanitarie regionali durante l’emergenza Covid-19: una comparazione tra serie storiche, EyesReg, 10, 5.

Appendice

Tabella 1: Anomalie osservate nelle Regioni in fase iniziale della pandemia

Fonte: Elaborazione personale dei dati Protezione Civile

Tabella 2: Anomalie osservate nelle Regioni al termine della fase 1

Fonte: Elaborazione personale dei dati Protezione Civile

Tabella 3: Analisi dei dati della “seconda ondata”

Fonte: Elaborazione personale dei dati Protezione Civile
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