Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Coworking in emergenza Covid-19: quali effetti per le aree periferiche?

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di: Ilaria Mariotti e Dante Di Matteo

EyesReg, Vol.10, N.2, Marzo 2020

La pandemia innescata dalla diffusione massiva del nuovo coronavirus SARS-CoV-2 ha presto alterato le consuetudini e lo stile di vita di ciascun individuo in ogni parte del mondo (1). La forzata necessità di alimentare il ‘distanziamento sociale’, al fine di ridurre al minimo le occasioni di contagio e di trasmissione del virus, ha inevitabilmente sollevato l’esigenza di rimodulare anche le modalità di lavoro degli individui: molti professionisti privati e dipendenti pubblici sono stati esortati a lavorare in smart working (lavoro agile). Se, in molti casi, la dematerializzazione del luogo nell’ambito della prestazione di servizi può addirittura significare lo snellimento di alcune prassi burocratiche (come alcuni servizi di base della PA), oltre che un discreto time saving, per altre tipologie di lavoratori del terziario le misure di distanziamento sociale possono produrre effetti decisamente negativi. È certamente il caso della classe di lavoratori creativi e digitali, ad alta intensità di conoscenza e innovazione, molti dei quali sono utilizzatori abituali degli spazi di coworking (CS) in qualità di coworkers (CW). Il coworking è definito dalla letteratura ‘third place’, ovvero una alternativa al lavoro a domicilio (casa-first place) e al lavoro tradizionale in ufficio (second place), dove lavoratori autonomi, liberi professionisti, start-up innovative e imprese possono interagire riducendo così i rischi di isolamento e aumentando le occasioni di incontro e lo scambio di conoscenza ed esperienza, che favorisce relazioni fiduciarie e di amicizia e nuove opportunità di business (Pais, 2012). L’interazione dinamica e la prossimità fisica, sociale, cognitiva e organizzativa (a là Boschma, 2005) è l’essenza stessa dei CS, dove l’interscambio è vitale per il funzionamento di tali moderne communities di lavoratori (Akhavan, Mariotti, 2018; Mariotti, Akhavan, 2020). Inoltre, una parte significativa dei CS organizza eventi aperti alla comunità e/o al pubblico che contribuiscono, a volte in modo significativo, ai ricavi del gestore.

Il (parziale o totale) lockdown imposto da un numero sempre più ampio di città e aree metropolitane, che aumenta di pari passo con la diffusione del virus negli Stati di tutto il mondo, rappresenta senz’altro una minaccia per la tenuta degli spazi di coworking, che solo in alcuni paesi, come ad esempio la Danimarca, ricevono incentivi dallo Stato a fronte di una comprovata riduzione del giro di affari (2).

Dal coworking allo smart working

I CS italiani sono prevalentemente localizzati nelle città metropolitane e nelle province a più alta intensità di conoscenza e innovazione, confermando le scelte localizzative dell’industria creativa che privilegia aree con una forte concentrazione di amenities (Van Oort et al., 2003). In termini di classi di comuni, sfruttando i criteri definitori introdotti dalla Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI), si rileva che più dell’80% dei 549 CS italiani (dati al 2018), è localizzato in poli urbani o intercomunali, il 16% si trova nei comuni «cintura», mentre solo il 3.5% di essi è localizzato in aree intermedie, periferiche o ultra-periferiche (Aree Interne) (Figura 1). D’altra parte, una (triste) analogia con la ‘geografia’ del Covid-19 in Italia mostra che i clusters d’infezione più importanti si riscontrano proprio nelle province più innovative e ad alta densità di popolazione del nord Italia (su tutte, Bergamo, Milano, Brescia, Torino, Cremona e Piacenza (3)), le cui principali città e aree metropolitane, in primis Milano (Figura 2), ospitano la maggioranza dei CS. Come rilevato da un recente studio condotto da Italiancoworking(4), negli ultimi anni nei piccolissimi centri italiani sono nati coworking rurali, coworking sociali, spazi a gestione mista pubblico-privata, coworking in laboratori e studi professionali. Inoltre, nei piccoli comuni prossimi ad aree metropolitane si sta sperimentando il ‘commuting coworking’ che, con l’affermarsi del lavoro agile, offre il vantaggio di lavorare vicino casa in alcuni giorni alla settimana.

Figura 1: Localizzazione degli spazi di coworking in Italia (2018)

Fonte: elaborazione degli autori

Figura 2: Gli spazi di coworking a Milano (2019)

Fonte: elaborazione degli autori

In uno scenario complessivo nel quale la quasi totalità delle attività produttive di beni e servizi si trova inevitabilmente a soffrire la chiusura imposta dal lockdown e della conseguente impossibilità a svolgere regolarmente la propria attività, i CS e i suoi utilizzatori rischiano di subire pesanti conseguenze economiche e sociali. Semplicemente, si pensi che la maggioranza dei CS sono localizzati proprio in alcune tra le città e le aree metropolitane maggiormente colpite dalla pandemia e che, alla luce della prima esperienza resiliente della regione cinese dell’Hubei con la città di Wuhan (paragonabile proprio alla regione lombarda in termini di densità di popolazione), appare chiaro che le città più interconnesse e largamente colpite dal virus saranno quelle che, con buona probabilità, necessiteranno di più tempo per garantire il ripristino di tutte le attività e il graduale ritorno alla normalità(5). Se si considera che i CS assolvono alla propria funzione sociale soprattutto in virtù del potere attrattivo e aggregante di cui godono nei confronti dei professionisti, non pare un azzardo prendere in considerazione il rischio di un periodo di agonia non breve per essi all’interno delle aree metropolitane.

Tuttavia, anche al termine dell’emergenza sanitaria, alcuni CS e relative attività potrebbero, almeno nel breve periodo, non ritornare al loro stato iniziale, giacché drammatici shock esogeni, come la pandemia, richiedono una capacità di resilienza che non tutti gli individui o le imprese sono in grado di possedere allo stesso tempo. Le attività svolte all’interno dei CS sono caratterizzate da frequenti interscambi durante la giornata e, quindi, la possibilità di entrare in contatto con altre persone così assiduamente potrebbe riaccendere il terrore del contagio e disincentivare la presenza fisica sul luogo di lavoro, anche a fronte di una nuova offerta di postazioni di lavoro che garantiscano la ‘distanza di sicurezza’ tra i coworkers e un adeguamento delle strutture dal punto di vista igienico-sanitario[6]. Inoltre, se si considera che molti dei CW svolgono tipologie di attività che si prestano ad essere realizzate anche all’interno delle mura domestiche, in quanto necessitanti di poche utili strumentazioni (scrivania, pc e connessione internet), una contrazione a breve termine di questi nuovi spazi del lavoro sembra più che plausibile e pertanto è necessario immaginare e disegnare possibili scenari per questa tipologia di luogo di lavoro, che gode di consensi anche da parte degli interlocutori pubblici.

Una possibile rinascita delle aree periferiche?

Alla luce di quanto detto, possibili piani per la rilocalizzazione o riconversione delle attività dei CS e dei suoi CW in aree periferiche potrebbero rappresentare, in alcuni casi, una soluzione praticabile per una serie di ragioni. Intanto, i potenziali benefici di possedere il luogo di lavoro in un’area periferica e/o rurale sono già noti (maggiori livelli di benessere e minore stress percepito, assenza di congestione urbana, traffico e inquinamento, ecc., si rimanda, tra gli altri, a Fuzi, 2015). Akhavan et al. (2020) hanno rilevato che i CS nelle aree periferiche sono più propensi ad organizzare e partecipare ad attività con impatto potenziale positivo sul territorio in cui sono localizzati (ad esempio, agevolazioni con bar e negozi del quartiere, eventi di sensibilizzazione e attività culturali aperte all’esterno, e in alcuni casi dedicate al quartiere), rispetto ai CS localizzati in aree urbane.

All’interno di questo dibattito aggiungiamo una ulteriore evidenza scaturita da una indagine diretta, condotta nel 2018, a un campione di 326 CW, distribuiti geograficamente in tutta Italia, ovvero che i CW che lavorano nei coworking in periferia hanno maggiori possibilità di incrementare i propri ricavi rispetto a coloro che operano nelle aree urbane (Mariotti, Di Matteo, 2020). Per raggiungere questo risultato è stato applicato un metodo di valutazione non parametrico, identificando come soggetti ‘trattati’ gli individui localizzati nelle «Aree Interne» del Paese (comuni intermedi, periferici e ultra-periferici) e come gruppo di controllo (‘non trattati’) quelli invece localizzati in un’area «Centro» (poli urbani e intercomunali, comuni di cintura), individuando una serie di covariate utili ad estrarre determinate caratteristiche che ci permettessero di disegnare uno scenario randomizzato quasi-sperimentale. Il ‘trattamento’, idealmente, corrisponde alla possibilità di beneficiare dei vantaggi ambientali e paesaggistici che le aree più remote possono offrire rispetto alle aree urbane a maggiore congestione.

Questa suggestione potrebbe essere di interesse per i gestori dei coworking, per gli utilizzatori degli stessi e per i decisori politici, al fine di rimodulare e riprogrammare una graduale (auspicata) ripresa delle attività in questo periodo di emergenza sanitaria. Le Aree Interne, probabilmente anche in virtù del quasi ‘naturale isolamento’ che la propria conformazione orografica ne comporta, sono quelle che paiono essere attaccate di meno dalla diffusione del Covid-19, ed è probabile che proprio tali luoghi saranno i primi a poter rimuovere le barriere del ‘distanziamento sociale’, tornando più velocemente alla normalità al termine dell’emergenza e consegnando – di fatto – un’immagine di sé stessi come ‘luoghi sicuri’. A tutto ciò, se aggiungiamo anche l’evidenza secondo cui l’essere localizzati in tali luoghi possa essere profittevole, sia per il territorio ospitante, sia per gli individui coinvolti nei nuovi luoghi del lavoro, scenari quali la rilocalizzazione di CS e CW in aree periferiche potrebbero rappresentare più di una semplice ipotesi.

Recenti studi hanno messo in evidenza come le aree periferiche possano risultare più innovative di quelle centrali e tendano ad ospitare i cosiddetti ‘slow innovators’ che, rispetto ai ‘fast innovators’ delle grandi città, hanno meno bisogno di interazioni frequenti e per i quali la conoscenza può essere trasmessa attraverso distanze più lunghe (Eder, 2019). Inoltre, nei paesi nordici come la Finlandia, i CS sono spesso ospitati dalle biblioteche pubbliche o da coffee shops al fine di facilitare il lavoro di freelancers, imprenditori, ma anche addetti della PA (Di Marino, Lapintie, 2018).

Per gli amministratori dei comuni delle aree periferiche potrebbe dunque essere un’idea concreta quella di promuovere iniziative di attrazione verso i gestori dei CS, ad esempio offrendo vantaggiose condizioni fiscali o incentivi alla rilocalizzazione di tali attività all’interno del proprio territorio. Potrebbero, inoltre, essere gli stessi coworking manager a guardare con rinnovato interesse ad aree periferiche che in precedenza erano escluse dalle loro strategie, oppure ampliare il proprio network alle “case” e/o spazi pubblici dedicati (biblioteche) in cui i CW conducono/possono condurre lo smart working non allontanandosi dalla propria residenza. Questo necessita, tuttavia, un ripensamento dei servizi erogati dal coworking e, in senso più generale, del modello di business che riduce la componente fisica e valorizza la componente immateriale.

Tuttavia, pur avvalorando la validità ad ampio raggio di tali possibili scenari, alcune criticità o elementi di incertezza permangono: professionisti del terziario ad alta intensità di conoscenza, innovazione e creatività necessitano di determinate condizioni per poter esprimere le proprie potenzialità (Florida, 2002). Se, da un lato, certe condizioni paesaggistiche da locus amoenus tipiche delle aree remote possono senz’altro alleggerire tensioni altresì frequenti in ambienti urbani ‘nevrotici’ e favorire benessere psicofisico, è altrettanto vero che l’assenza di certi asset strutturali, quali, ad esempio la banda larga(7), può inibire la predisposizione a qualsiasi tipo di lavoro. A ciò si aggiungono le problematiche che hanno contribuito a delineare i contorni di perifericità (tra cui, trasporti e mobilità) di queste aree e che non faciliterebbero i contatti face-to-face con clienti e fornitori siti nelle grandi città, di cui i coworkers potrebbero necessitare di tanto in tanto (McCann, 2008). Inoltre, nel caso in cui si adottasse, nelle aree periferiche, il modello finlandese di CS all’interno di edifici pubblici (per esempio biblioteche), possibilmente collegato a network di coworking esistenti, sarebbe necessario verificare: (i) la domanda di utenti potenziali disposti a riorganizzare le proprie attività in aree non centrali e la relativa disponibilità a pagare per i servizi offerti, valutando, in tal modo, la portata dell’intervento e la sostenibilità a lungo termine dell’eventuale iniziativa di rilocalizzazione; (ii) la fattibilità in termini tecnici e di destinazione d’uso dei locali, oltre agli eventuali costi di attivazione; (iii) l’eventualità di un possibile snaturamento del concetto di CS, laddove potrebbe verificarsi la perdita di dinamicità e coinvolgimento nella condivisione dello spazio in funzione di un utilizzo più statico e utilitaristico delle strutture. Il tutto, al di là della complessità del momento, sconta l’incertezza dell’orizzonte temporale dell’operazione e quindi l’impossibilità di stimare i tempi di ammortamento degli investimenti necessari.

Ilaria Mariotti e Dante Di Matteo, Politecnico di Milano – DAStU

Riferimenti bibliografici

Akhavan, M., Mariotti, I., Di Matteo, D. (2020). The Geography of Coworking Spaces and the Effects on the Urban Context: Are Pole Areas Gaining? In Akhavan, M., Di Vita, S., Mariotti, I. (eds), Sharing Workplaces in the Knowledge Economy, Switzerland: Springer, in corso di pubblicazione.

Akhavan, M., Mariotti, I. (2018). The effects of coworking spaces on local communities in the Italian context. Territorio, 87: 85–92.

Boschma, R. (2005). Role of Proximity in Interaction and Performance: Conceptual and Empirical Challenges. Regional Studies, 39(1): 41–45.

Di Marino, M., Lapintie, K. (2018). Exploring multi-local working: challenges and opportunies in contemporary cities. International Planning Studies, DOI: 10.1080/13563475.2018.1528865

Eder, J. (2019). Innovation in the Periphery. A Critical Survey and Research Agenda. International Regional Science Review, 42(2): 119–146.

Florida, R. (2002) The Rise of the Creative Class. New York: Basic Books.

Fuzi, A. (2015). ‘Co-working spaces for promoting entrepreneurship in sparse regions: the case of South Wales’. Regional Studies, Regional Science, 2(1): 462–469.

Mariotti, I., Akhavan, M. (2018), La localizzazione degli spazi di coworking in Italia: aree metropolitane vs. aree periferiche. Working papers. Rivista online di Urban@it, 2: 1–11.

Mariotti, I., Akhavan, M. (2019), Il coworking in Italia: localizzazione, performance, effetti sul contesto urbano, EyesReg, 9(3).

Mariotti, I., Akhavan, M. (2020), Exploring Proximities in Coworking Spaces, European Spatial Research and Policy, in corso di pubblicazione.

Mariotti I., Di Matteo D. (2020), Understanding the economic performance of Coworking Spaces in core vs. peripheral areas, Conferenza AISRe, Lecce, 2-4/09/20.

McCann, P. (2008). Globalization and economic geography: the world is curved, not flat. Cambridge Journal of Regions, Economy and Society, 1(3): 351–370.

Pais, I. (2012), La Rete Che Lavora, Milano: Egea. Van Oort, F., Weterings, A., Verlinde, H. (2003). Residential amenities of knowledge workers and the location of ICT-firms in the Netherlands, Tijdschrift voor Economische en Sociale Geografie, 94(4): 516–523


Note

(1) Si rimanda a: https://www.theguardian.com/world/2020/mar/26/life-after-coronavirus-pandemic-change-world; https://www.citylab.com/design/2020/03/coronavirus-urban-planning-global-cities-infectious-disease/607603/.

(2) Si rimanda a: https://www.ilsole24ore.com/art/la-casa-mette-crisi-coworking-spazi-e-servizi-ripensare-ADF3YgH

(3) Dati del Ministero della salute al 31 marzo 2020 (http://opendatadpc.maps.arcgis.com/apps/opsdashboard/index.html#/b0c68bce2cce478eaac82fe38d4138b1, ultimo accesso: 31.03.2020).

(4) www.italiancoworking.it

(5) Si rimanda a Richard Florida (2020): https://www.citylab.com/equity/2020/03/coronavirus-cities-adapt-future-plan-economy-infrastructure/608908/

(6) Questa soluzione dovrà essere necessariamente intrapresa dai gestori dei coworking risultando, tuttavia, onerosa dal punto di vista finanziario.

(7) Si rimanda all’appello dell’UNCEM sulla mancanza della banda larga in molte aree alpine (http://www.uncem.piemonte.it/News.php?&id=462).

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