di: Valerio Cutini
EyesReg, Vol.8, N.6, Novembre 2018
Una riscoperta?
Destano stupore, sollevano interrogativi e meritano qualche riflessione la frequenza e l’enfasi con cui il confronto politico, il dibattito giornalistico e l’attenzione mediatica intorno alla realizzazione delle grandi opere hanno di recente portato in primo piano l’analisi costi-benefici, come strumento di valutazione a supporto delle scelte di realizzazione e di localizzazione di impianti e infrastrutture.
Al di là del merito della questione e dei singoli temi in discussione, un semplice, e magari grossolano, indicatore vale a materializzare questo recente picco di attenzione; il 29 novembre 2018 Google registra che nel corso dell’ultimo anno la voce “costi-benefici” ha raccolto su internet un ammontare complessivo di 307 riferimenti, a fronte di numeri compresi fra 125 e 150 in ciascuno dei dieci anni precedenti al 2018, ad attestare un fenomeno mediatico riconosciuto dalla stessa stampa: “Grande successo di pubblico: da argomento riservato a pochi specialisti, l’analisi costi-benefici (ACB) ha conquistato le prime pagine dei giornali” (Ramella, 2018).
L’impressione che emerge è quella della riscoperta di questa disciplina, in effetti tutt’altro che nuova o particolarmente innovativa; se non addirittura, da parte di alcuni, della sua scoperta. Non è questa la sede per ripercorrere la lunga vicenda dell’analisi costi-benefici, una tecnica di origine ottocentesca che ha conosciuto la sua stagione d’oro nei primi decenni del dopoguerra, prima di un lungo periodo di più tiepidi consensi; sarà piuttosto l’occasione per discutere le ragioni del suo recente vigoroso ritorno di interesse ben oltre il proprio perimetro disciplinare; e soprattutto i motivi dell’assunzione di questa tecnica in veste pressoché oracolare, come uno strumento di valutazione risolutivo, i cui esiti sono indiscutibili e dirimenti sulle più controverse scelte territoriali, o sono presentati come tali.
Una lunga vicenda
Il tema preliminare – quello meno originale e interessante, per esser già stato oggetto di innumerevoli confronti, ma che non può qui rimanere del tutto inevaso – riguarda gli aspetti metodologici dell’analisi costi-benefici: una disciplina che nel corso dell’intero Novecento ha conosciuto diverse formalizzazioni e molte importanti applicazioni, guadagnandosi schiere di convinti sostenitori e altrettanto numerosi critici e detrattori; gli uni e gli altri accesi in un confronto sul quale non si intende entrare, ma cui è opportuno far cenno. Già è stato opportunamente osservato (Moroni, 1997) che le criticità e i punti di debolezza della costi-benefici sono contestuali e speculari agli stessi aspetti positivi che ne hanno reso l’approccio attrattivo e da molti condiviso e utilizzato. Fra questi, su tutti, l’inarrivabile semplicità del meccanismo logico, che consente di (o aspira a) confrontare e soppesare i benefici di varia natura di un’opera con i suoi costi, di natura altrettanto eterogenea, utilizzando una medesima metrica di quantificazione e comparazione, così da sintetizzare in un unico e onnicomprensivo valore la misura della sua effettiva utilità. Una semplicità che è stata definita ecumenica (Sen, 2000) e che auspicabilmente garantisce anche la trasparenza della scelta, orientata alla massimizzazione di un parametro tanto esplicito e facilmente controllabile dai cittadini e dalle comunità interessate. Un ulteriore elemento di appeal dell’approccio è l’ottica consequenzialista al cui interno opera, che àncora il giudizio su un’opera agli effetti (positivi e negativi, ovvero, appunto, benefici e costi) da questa prevedibilmente indotti, con ciò sollecitando un’attenta considerazione e un’aperta discussione delle sue esternalità.
Speculari ai pregi, si è detto, i punti di debolezza spesso lamentati. Speculare alla semplicità dell’assunzione di un’unità metrica di utilità è la fisiologica tendenza al riduzionismo e all’iper-semplificazione, che in tale sintesi rischia di comprimere la complessità dei fenomeni e dei diversi aspetti (Taylor, 1982), che è arduo rendere omogenei, tanto da poterli sommare, sottrarre e confrontare; operazione che, specie per i benefici, è per di più pesantemente influenzata dalla discrezionalità nella definizione dell’orizzonte temporale di riferimento.
Speculare alla trasparenza del processo è l’opacità del quadro informativo che talvolta lo sostiene, sia per la concreta difficoltà di censire e quantificare le preferenze individuali e collettive delle quali valutare il soddisfacimento, sia per il fatto che l’informazione (raramente completa, accurata e corretta) può condizionarne in modo decisivo la formazione.
Speculare ai pregi di un’ottica consequenzialista è la scarsa considerazione degli aspetti etici, in particolare riguardanti l’ambiente, la sicurezza o la salute, relegati sullo sfondo o addirittura esclusi in radice dall’assunzione della massimizzazione dell’utilità come unico criterio di valutazione di piani e progetti (Kelman, 1981; Taylor, 1982); tanto che, con riferimento a questioni scientificamente controverse, da più parti è stato prospettato di vincolare i risultati della costi-benefici al rispetto di alcune precondizioni di ordine etico, secondo un generale principio di precauzione (Petrenko, McArthur, 2011). Inoltre, e ancor più in generale, l’ottica consequenzialista si fonda naturalmente sulla presunzione della possibilità della piena prevedibilità e conoscenza degli esiti di un intervento, pilastro assai traballante nell’età dell’incertezza seguita alla crisi del paradigma razional-comprensivo.
Queste criticità, ben note, sono emerse nelle più significative e citate esperienze di analisi costi-benefici a sostegno di processi decisionali e già sono state largamente illustrate e discusse; fra i casi più noti sono quelli per la realizzazione in Gran Bretagna dell’autostrada M1 e della Victoria Line della metropolitana di Londra. Paradigmatica è la vicenda del processo di scelta della localizzazione del terzo aeroporto di Londra, avviato nel 1961 e concluso trent’anni dopo con la scelta di Stansted (Moroni, 1994). La Roskill Commission, incaricata di selezionare la località in una lista di 78 possibili mediante un’analisi costi-benefici, si trovò ad affrontare il problema di confrontare e soppesare su un’unica scala metrica eventi come il consumo di suolo agricolo, la distruzione del paesaggio rurale, la compromissione delle identità delle comunità locali, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, gli elevati livelli di rumore in corrispondenza di residenze (1000 a Nuthamstead), la distruzione di villaggi e lo spostamento dei loro abitanti (600 abitazioni a Stansted), la demolizione di importanti monumenti (una chiesa normanna a Cublington), i danni a flora e fauna locali, la costruzione di nuove residenze e infrastrutture stradali e ferroviarie, l’incremento del turismo e dell’occupazione, lo sviluppo dell’industria nazionale aeronautica; dovendo quindi risolvere il problema di monetizzare benefici e costi di natura assai diversa, con l’esigenza di distinguere e pesare in modo differenziato le ricadute territoriali dei costi (per lo più locali) e dei benefici (per lo più nazionali). Ciò che in concreto doveva rivelarsi tutt’altro che semplice e oggettivo e non poteva che minare l’attendibilità del metodo e l’accettazione condivisa dei suoi risultati (Lichfield, 1971; Buchanan, 1981); ovvero l’indicazione della località di Cublington, in effetti poi contraddetta dalla scelta definitiva.
Tutto ciò vale a ricordare la lunga storia di questa disciplina, che nel passato più o meno recente ha conosciuto molte rilevanti applicazioni, utili a far emergere aspetti positivi e fortemente attrattivi a fianco di punti di debolezza già da tempo denunciati e discussi; e che al fine di risolvere tali criticità variegate sue declinazioni sono gemmate dalla tradizionale radice utilitarista. Tanto che l’analisi costi-benefici non costituisce oggi che uno degli strumenti di supporto alle decisioni, a fianco di numerosi altri (l’analisi costi-efficacia, l’analisi del rischio o l’analisi multicriteri, nelle sue varie forme, fra gli altri), accreditati di significativi elementi di pregio e a loro volta non esenti da criticità e limiti di utilizzo.
Le ragioni
È lecito a questo punto domandarsi per quale ragione con notevole enfasi proprio la costi-benefici sia stata recentemente e ripetutamente evocata o invocata – nelle dichiarazioni e nei confronti sulla TAP, sull’ILVA di Taranto, sul MUOS, sulla TAV, sulla nuova galleria del Brennero, sull’intervento di ricostruzione del ponte Morandi – come l’arma decisiva, definitiva e incontestabile per risolvere in modo oggettivo e trasparente questioni tanto dibattute, senza peraltro che ciò abbia sollevato all’intorno forti obiezioni di metodo o puntualizzazioni.
Certamente si tratta, in qualche misura, di ragioni lessicali, che suggeriscono una sorta di sineddoche concettuale, la parte per il tutto: dico “analisi costi-benefici”, ma intendo in senso più generale uno strumento oggettivo di valutazione preliminare del progetto. E, nel parlare di costi-benefici, alludo in particolare al fatto che terrò in attenta considerazione i costi di realizzazione dell’intervento, che implicitamente sospetto e denuncio ben maggiore dei benefici attesi. Sembra quindi un motivo legato a finalità di comunicazione, rispetto al quale l’evidenza che l’opera debba comunque essere (o addirittura già sia stata) oggetto di preventive forme di valutazione a norma di legge, tramite VIA o VAS, appare del tutto irrilevante.
È plausibile che anche esigenze di immediatezza comunicativa abbiano concorso ad alimentare il rinnovato interesse verso questa disciplina, per la confortante illusione che sembra offrire (al decisore, all’informazione, alle comunità) di ricondurre ai minimi termini di una variabile di utilità complessiva l’irriducibile complessità di effetti e dinamiche territoriali che, di per sé difficilmente prevedibili, investono in tempi diversi molti e assai distanti ambiti, e coinvolgono portatori di interessi, attese e sensibilità dissimili e spesso conflittuali. La complessità non è telegenica, male si presta alle contrapposizioni manichee e al ritmo concitato della polemica mediatica, men che meno se affidata a brevi raffiche su Twitter; ogni forma di semplificazione è benvenuta, rassicurante, consolatoria e convincente:
[…Questa è voglia di certezza in un mondo instabile. È una fuga da problemi estremamente complicati che non possiamo nemmeno nominare. È una voglia di grande semplificazione. Nostalgia per una perdita, un mondo semplice e una serie di compiti al suo interno…] (Bauman, Galecki, 2005).
Ma rimane anche il dubbio che, in un simile anelito alla semplificazione, il richiamo al verdetto dell’analisi costi-benefici nasconda l’auspicio che questa, ben oltre il prezioso contributo che può in effetti offrire, possegga anche una capacità taumaturgica: che possa cioè alleviare il peso dell’assunzione di scelte difficili, possa stemperare contrasti e risolvere inevitabili dissensi nella neutralità di un oggettivo responso esterno, con ciò di fatto delegando ai saperi esperti e alle competenze tecniche la responsabilità di decisioni controverse. Dimenticando che chi decide, come Riccardo III la notte prima della battaglia, non può alla fine che restare solo.
Valerio Cutini, Università di Pisa
Bibliografia
Bauman Z., Galecki L. (2005), The unwinnable war: an interview with Zygmunt Bauman,
https://www.opendemocracy.net/globalization-vision_reflections/modernity_3082.jsp
Buchanan C. (1981), No way to the airport, Londra: Longman.
Kelman S. (1981), Cost-benefit analysis: an ethical critique, AEI Journal on Government and Society Regulation, 33-40.
Lichfield N. (1971), Cost-benefit analysis in planning: a critique of the Roskill Commission, Regional Studies, 5, 157-183.
Moroni S. (1997), Etica e territorio. Prospettive di filosofia politica per la pianificazione urbana e territoriale, Milano: Franco Angeli.
Moroni S. (1994), La conclusione di un interminabile processo decisionale: una rilettura della vicenda del terzo aeroporto londinese alla luce degli avvenimenti più recenti, Archivio di Studi Urbani e Regionali, 50, 129-154.
Petrenko A., McArthur D. (2011), High-stakes gambling with unknown outcomes: justifying the precautionary principle, Journal of Social Philosophy, 42, 4, 346-362.
Ramella F. (2018), Costi e benefici per capire se serve una grande opera, Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2018, 13.
Sen A. (2000), The discipline of cost–benefit analysis, The Journal of Legal Studies, 29, 2, 931-52.
Taylor C. (1982), The diversity of goods. In A. Sen & B. Williams (Eds.), Utilitarianism and Beyond, Cambridge: Cambridge University Press, 129-144.
at 21:21
L’articolo è interessante e equilibrato.
Alcuni commenti tuttavia.
1 – sull’eticità della CBA, si possono fare molti rilievi, ma fra i paradigmi economici è probabilmente quella che meglio si presta all’introduzione di criteri etici. Almeno in confronto con i metodi di studi d’impatto economico o l’insieme di metodi di previsione che riguardano solo al Valore Aggiunto. Anche probabilmente in confronto con l’analisi multicreteria dove impatti su temi etici (in primis: la mortalità, l’ambiente) sono depotenziati dalla rinuncia a integrare le diverse dimensioni in un risultato unitario (almeno di farlo, ma allora in maniera spesso arbitraria).
2 – sull “ipotesi di piena prevedibilità”, mi sembra non una caratteristica dell’ACB, ma un generale limiti degli approcci economici. Ossia troppe ACB sono fatto con questa ottica, come sono fatte troppi CGE, troppi studi d’impatto in questa maniera. In realtà, non pare un limite intrinseco dell’approccio, ma una semplificazione -per non dire “una tentazione”- alla quale troppo spesso ricorrono gli analisti qualsiasi.
3 – infine l’argomento secondo il quale l’ACB si sostituirebbe alla scelta del decisore, mi sembra nei fatti poco corroborato. Non è generalmente nelle intenzioni degli analisti dare questo ruolo decisivo all’analisi e nei fatti raramente (forse ci accorgeremo che neanche nei casi che attualmente ci interessano) l’ACB é decisiva. Infine anche la scelta di rimettersi all’ACB è una scelta politica (come quella di non farlo). .. Alla fine si tratta, come dice un collega americano : di aiutare la valutazione ragionata rispetto ai preconcetti, facilitando una quantificazione d’insieme (suona meglio in inglese: “Supporting rational evaluation over preconception by facilitating comprehensive quantification”)
Poi di strumentalizzazioni… ovviamente ce ne possono sempre essere.
Grazie per questo pezzo.
at 09:58
Articolo interessante, condivido la sorpresa circa il notato rinnovato interesse per l’analisi costi-benefici e trovo in qualche modo condivisibili le ragioni suggerite per spiegarne l’origine.
Qualche commento è necessario. Condivido quelli già elencati da Jerome e aggiungo un altro punto che trovo fondamentale. Il rigore e la credibilità della analisi costi-benefici (come in definitiva di ogni altro esercizio valutativo) dipendono strettamente dall’esistenza di un sistema istituzionale e normativo che stabilisca le ‘regole del gioco’ e si preoccupi di promuoverle, diffonderle e controllare che vengano rispettate.
Sarebbe opportuno per esempio che i parametri e alcuni valori chiave (tassi di sconto finanziario e sociale, orizzonte temporale, fattori di conversione e prezzi ombra, etc.) utilizzati nell’analisi si stabilissero centralmente (a livello nazionale, per esempio) sulla base di valutazioni approfondite che possono anche riflettere eventuali obiettivi etico-politici in modo da ridurre la discrezionalità e lo sforzo degli analisti con calcoli ad hoc su singoli progetti. Occorrerebbe definire in modo chiaro e controllare in quale momento della preparazione del progetto effettuare l’analisi: la buona pratica suggerirebbe che fosse il momento in cui alcune opzioni progettuali, oltre che la decisione stessa di finanziamento, sono ancora aperte mentre la pratica evidenzia come spesso l’analisi costi-benefici venga confezionata con un intento di razionalizzazione ex-post quando la scelta già esiste. Occorrerebbe definire e far rispettare anche alcuni standard di qualità: i contenuti minimi (a puro titolo di esempio: la buona pratica suggerirebbe di includere sempre una analisi di sensibilità e del rischio con una discussione critica delle misure di mitigazione mentre la pratica evidenzia come questo non avvenga che episodicamente), l’approccio metodologico (come giustamente l’articolo sottolinea esistono diverse declinazioni, anche di natura settoriale, dei metodi e tecniche a disposizione) e la coerenza e credibilità delle principali assunzioni e ipotesi di lavoro. Infine, occorrerebbe ci fosse sia la volontà politica che la capacità, per nulla scontata, di utilizzare i risultati delle analisi in modo trasparente per informare la decisione pubblica. Che deve rimanere in mano al decisore politico, senza falsi alibi.
Qualcosa del genere viene promosso da anni dalla Direzione Generale di Politiche Regionali della Commissione Europea per il cofinanziamento dei grandi progetti infrastrutturali tramite i Fondi Europei Strutturali e di Investimento. In quel contesto l’ACB è obbligatoria da regolamento, la legislazione secondaria indica alcuni parametri di riferimento, esistono delle linee guida con regole armonizzate che vengono costantemente aggiornate ed esistono fondi per la formazione e l’assistenza tecnica che hanno reso possibile, nel tempo, lo sviluppo di team professionali sempre più competenti e aggiornati in sede alle istituzioni pubbliche e comunità professionali che nei singoli stati membri si occupano di preparare i progetti. Non è un sistema perfetto ma certamente una buona pratica internazionale, ne esistono altre.
Tutto ciò per dire che non tutti i limiti delle ACB in circolazione dipendono strettamente dalla natura metodo.
Arriviamo dunque al richiamo circa la presunta facilità di comunicazione dei risultati al grande pubblico da cui deriverebbe il rinnovato interesse. Ritengo che rendere pubbliche le analisi costi-benefici sarebbe una buona pratica da promuovere nel già citato sistema di regole perché permetterebbe di mostrare la realtà dei fatti documentata in tutta la sua complessità. Al contrario di quanto sembra suggerire l’articolo e di quanto probabilmente ritenuto da molti, il vero contributo della ACB non sta in un sintetico indice di performance che semplicemente condensa in modo efficace un giudizio finale, ma il processo di indagine e analisi che sottende la produzione di tale indice, che dovrebbe essere ben documentato nello studio, corredato di eventuali allegati tecnici. Se eseguita secondo standard di qualità, l’ACB permette per esempio di mostrare possibili trade-off tra benefici attesi, di rendere esplicite e quantificare le eventuali esternalità negative, di discutere l’esistenza di possibili diverse opzioni progettuali e i costi ad esse connessi e così via. Il tutto sottoponile ad un vaglio di falsificabilità. L’auspicabile risultato sarebbe quello di spostare il dibattito politico dal confronto basato su pregiudizi e posizioni ideologiche a quello su dati e assunzioni tecniche, ritengo con un miglioramento della trasparenza e della qualità stessa del dibattito.
Il decisore è solo, ma in un sistema democratico deve rendere conto delle sue scelte.
Grazie per l’articolo, discussione interessante.