Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

La bioeconomia in Italia: confronti territoriali e potenzialità di sviluppo

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di: Massimo Castellano

EyesReg, Vol.8, N.5, Settembre 2018

 

 

 

Il concetto di bioeconomia ha acquisito nel corso degli ultimi anni un’importanza rilevante nel campo della ricerca, ma ha anche stimolato un vivace ed interessante dibattito politico che ne ha riconosciuto un ruolo di assoluto rilievo nel quadro delle grandi sfide con cui la società dovrà misurarsi. A differenza delle due precedenti fasi di sviluppo, basate sulle risorse naturali la prima e sulle risorse di origine fossile la seconda, la prossima fase di sviluppo, quella bioeconomica, potrà fornire delle importanti risposte, nel corso dei prossimi anni, alle sfide ambientali, sociali ed economiche che i paesi europei si troveranno ad affrontare.
Per la Commissione Europea (CE) la bioeconomia potrà fornire importanti risposte alle sfide ambientali, sociali ed economiche che l’Europa si troverà ad affrontare nei prossimi anni. Negli intendimenti della CE (Commissione Europea, 2011 e 2012a) la bioeconomia rivestirà un ruolo di primaria importanza per la riduzione della dipendenza dalle risorse naturali e per un uso ottimale delle risorse biologiche rinnovabili, evolvendo verso sistemi di produzione e di trasformazione primari, la cui sostenibilità consentirà una maggiore produzione con un minore utilizzo di risorse, una riduzione dell’impatto ambientale e delle emissioni di gas ad effetto serra.
La strategia per la bioeconomia elaborata dalla CE (Commissione Europea, 2011, 2012a, 2012b) (Commissione Europea, Horizon 2020) si prefigge di preparare il terreno per una società più innovatrice, più efficiente sotto il profilo delle risorse e più competitiva, in grado di riconciliare la sicurezza alimentare con lo sfruttamento sostenibile delle risorse rinnovabili a fini industriali, garantendo al contempo la protezione dell’ambiente. Essa guiderà l’evoluzione degli obiettivi della ricerca e dell’innovazione nei diversi segmenti della bioeconomia, contribuendo a definire un contesto politico più coerente, a migliorare gli intrecci tra le politiche bioeconomiche alle diverse scale di implementazione (nazionale, comunitario e persino globale), nonché a sollecitare un dialogo pubblico caratterizzato da un maggior impegno. Queste linee di intervento rispecchiano la filosofia dell’Unione Europea rispetto ad una traiettoria di sviluppo sostenibile che può essere raggiunta promuovendo l’innovazione tecnologica, la competitività dei mercati e l’inclusione dei molteplici soggetti coinvolti. (Svimez, 2017) (Ellen MacArthur Foundation, 2015)

 

La dimensione territoriale della bioeconomia in Italia

In Italia la bioeconomia è già una realtà consolidata. Ad affermarlo sono le analisi condotte da un gruppo di lavoro composto da Intesa Sanpaolo, Assobiotec e dal CREA (Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria), secondo le quali nel 2016 l’insieme delle attività connesse alla bioeconomia italiana ha generato un output di circa 260 miliardi di euro (pari all’8,3% del totale dell’economia italiana e al 26% se consideriamo solamente la componente della produzione di beni), per 1,6 milioni di occupati, a cui si possono aggiungere circa 10 miliardi afferenti al comparto connesso della raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti biodegradabili. Nella sua accezione più ampia, la bioeconomia include tutte quelle attività che utilizzano le risorse biologiche terrestri e marine per la progettazione e realizzazione di prodotti bio-based con riferimento a tre macrosettori: agroalimentare, foreste e bio-industria, bio-economia marina.
La rilevanza che la bioeconomia ha sull’economia italiana e l’elevata varietà delle produzioni afferenti a questo settore (agricoltura, silvicoltura e pesca, produzione alimentare, produzione di pasta di carta e carta, settore del tessile da fibre naturali e della concia, industria chimica, biotecnologica ed energetica) spinge ad approfondire l’analisi a livello regionale, con l’obiettivo di individuare le specificità e le eccellenze di ciascun territorio nei diversi comparti che rientrano nella definizione di bioeconomia. L’obbiettivo è fornire una panoramica sulle specializzazioni territoriali per ciascun settore incluso nella bioeconomia, individuando punti di forza ed eventuali criticità, analizzando le competenze presenti e le aree di miglioramento, al fine di fornire un quadro il più possibile esaustivo sullo stato dell’arte della bioeconomia a livello regionale, pur in mancanza di statistiche regionali sufficientemente dettagliate che consentano di stimare un valore complessivo della bioeconomia in ambito territoriale. La molteplicità di settori e soggetti coinvolti (imprese manifatturiere, sistema agricolo, ricerca scientifica, Istituzioni pubbliche e private), spinti dalla logica più ampia della circular economy a interagire e coordinarsi per sostenere un’economia che promuove l’uso di risorse rinnovabili, rende la dimensione territoriale un punto di partenza fondamentale per il successo di questo modello di sistema economico.

 

L’industria alimentare, delle bevande e del tabacco

Il comparto più rilevante in termini di valore della produzione è quello dell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco che rappresenta una delle specializzazioni principali della nostra economia. (Intesa San Paolo e Assobiotec su dati ISTAT, Rapporti 2017 e 2018) Le diverse specificità orografiche e climatiche, alla base delle peculiarità della produzione agricola regionale, insieme ai diversi percorsi di sviluppo storico, hanno dato origine nel nostro Paese a un settore a valle dell’alimentare e bevande estremamente ricco e variegato. Nell’ambito di questo segmento produttivo le regioni del Mezzogiorno spiccano soprattutto in termini di incidenza del valore aggiunto (VA) del settore alimentare sul totale manifatturiero (20% circa); le regioni invece che dominano in termini di generazione di VA sono la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Piemonte ed il Veneto. (Fumagalli, Stoppani, Trenti, 2017)
L’offerta alimentare italiana, rispetto a tutti gli altri paesi europei, è caratterizzata da tutte le principali filiere del settore: dal lattiero caseario, all’industria della carne, dei farinacei, dei prodotti da forno ecc. L’elevato livello qualitativo dell’offerta, unito all’attenzione delle specificità locali e alla tradizione territoriale si è coniugato a una forte attenzione nei confronti delle certificazioni biologiche, che costituisce una caratteristica della filiera agro-alimentare italiana. A livello regionale emergono, sia in termini di operatori biologici che di superficie agricola utilizzata (SAU), tre regioni: la Sicilia, la Calabria e la Puglia, che da sole raccolgono il 45% degli operatori ed il 46% dell’intera superficie. In termini di incidenza rispetto alla SAU, emergono Calabria e Sicilia, seguite da Toscana e Lazio. (Svimez, 2017) (ISMEA, MIPAAF e CIHEAM, 2017)
La crescita e l’elevata incidenza dell’agricoltura biologica a monte (che include sia i produttori che i trasformatori) in concomitanza con l’attenzione delle imprese alimentari a valle per questo tipo di certificazioni, ha comportato, in un contesto di bassa domanda domestica e di forte spinta verso l’estero, specie nei mercati Nord Europei (dove questi prodotti sono maggiormente diffusi e apprezzati), una maggiore crescita del fatturato, a cui si è associata una migliore capacità di generare redditività. A conferma di quanto detto, l’analisi di un campione di circa 5.500 imprese alimentari (con un fatturato minimo di 100.000 euro nel 2015) ha permesso di evidenziare una elevata incidenza di soggetti con certificazioni biologiche (circa il 20% del totale) con una presenza maggiore nelle regioni della Toscana, della Sicilia e della Puglia.

Agricoltura, silvicoltura e pesca
Un altro settore rilevante nel campo della bioeconomia è quello agricolo, che con la silvicoltura e la pesca, è un pilastro fondamentale per la bioeconomia. Esso rappresenta il bacino di approvvigionamento delle materie prime alla base dell’intero processo, e quindi, può essere per il futuro una leva di sviluppo importante per le regioni del sud d’Italia. I dati di Contabilità Nazionale relativi al VA evidenziano il ruolo di primaria importanza di alcune regioni, come Emilia-Romagna, Sicilia e Lombardia, che esprimono nel 2015 un VA (a prezzi correnti) dell’insieme delle attività agricole, silvicole e della pesca superiore ai 3 miliardi di euro. In particolare, nelle regioni meridionali il VA del settore agricolo risulta nel 2015 pari a circa 14 miliardi di euro (in valori correnti – pari al 41% del dato nazionale). Anche in termini relativi, l’incidenza del VA generato da tale settore sul totale del prodotto a livello regionale evidenzia un ruolo primario delle regioni meridionali (4,1%) a fronte di dati più contenuti per le regioni del Nord-Est (2,5%), del Nord-Ovest (1,2%) e di quelle del Centro (1,7%). (Intesa San Paolo e Assobiotec su dati ISTAT, 2017 e 2018) (Svimez, 2017)
La Puglia e la Sicilia, peraltro, risultano risultando rispettivamente prima e seconda in Italia per numero di aziende agricole, per percentuale di SAU sul totale della superficie regionale e per totale di manodopera impiegata e di superficie destinata all’agricoltura. Seguono la Calabria e la Campania, sia per il numero di imprese, sia la manodopera impiegata. In generale, le regioni meridionali si caratterizzano per un numero di aziende agricole circa quattro volte superiore a quello delle regioni del Centro e del Nord-Est e per superficie agricola in uso su livelli circa tre volte più elevati.
Il peso delle regioni del Sud è poi ancora più significativo nel caso dell’allevamento, in quanto quest’ultimo è di norma concentrato altrove. Nelle regioni del Nord come Veneto, Piemonte e Lombardia si ha circa l’80% dei capi allevati per area sul totale; nelle regioni del Mezzogiorno il valore è di 20% circa, e di poco più del 10% nelle regioni del Centro. Un discorso a parte merita il segmento della pesca e dell’acquacoltura che risente della dotazione di superfici costiere marine e della estensione delle acque interne, il cui VA si attesta su livelli decisamente superiori nelle regioni del Mezzogiorno (tra 500 e 600 milioni di euro) rispetto alle altre aree d’Italia, che non superano i 200 milioni di euro. In termini di generazione di VA dominano nettamente la Sicilia, per l’attività della pesca marina, la Puglia ed il Veneto, dove riveste un peso significativo anche l’attività di acquacoltura.
La diversa conformazione del territorio e la grande varietà climatica incidono anche sulla dotazione boschiva e sul relativo sviluppo della silvicoltura. Secondo i dati dell’Inventario Nazionale delle Foreste relativi al 2015 le regioni del Sud si distinguono per la maggiore presenza forestale in termini assoluti, con oltre 4 milioni di ettari (36,5% del totale forestale nazionale), in aumento rispetto al dato del 2005 (3,7 milioni di ettari). In termini relativi, ossia pesata sulla superficie complessiva, le dotazioni più consistenti sono invece quelle delle regioni del Centro-Nord (con valori compresi tra il 37% ed 44% della superficie territoriale totale), mentre in posizione più arretrata si attesta l’area del Mezzogiorno (32,6%), nel cui ambito i fanalini di coda sono la Puglia e la Sicilia. (Intesa San Paolo e Assobiotec su dati ISTAT, 2017 e 2018) (Svimez, 2017)

Le produzioni bio-based
In riferimento ai settori più innovativi e ad elevato contenuto tecnologico, è interessante sottolineare le molteplici esperienze che stanno nascendo nel Mezzogiorno nell’ambito delle produzioni bio-based. Sulla base delle informazioni disponibili, considerata la mancanza di statistiche adeguate a livello regionale, nel 2016 il comparto dei prodotti chimici bio-based potrebbe aver superato i 3 miliardi di euro in valore, raggruppando l’1,2% del totale della bioeconomia. Inoltre, la presenza sul territorio di diverse iniziative imprenditoriali che, seppur localizzate in diverse aree regionali, fanno capo a unico soggetto economico, rendono la stima prodotta a livello locale, ancora più complessa. Tuttavia, è da sottolineare il ruolo che la chimica verde sta rivestendo in alcune regioni del Sud, come la Campania, la Puglia e la Sardegna, grazie a importanti investimenti dei leader italiani del settore. In Campania, ad esempio, sono localizzate a Caserta due realtà produttive, come la GFBiochemicals, che produce acido levulinico a partire da biomassa, ed un centro di ricerca biotecnologica che Novamont ha acquistato nel 2012 da Tecnogen, evitando la chiusura di un centro di ricerca e relativa dispersione di competenze e capacità. Anche in Puglia si trovano interessanti iniziative: un primo esempio riguarda un centro di ricerca di Biochemtex (Gruppo Mossi e Ghisolfi), focalizzato sullo sfruttamento della lignina, ricavata da biomasse non alimentari, per produrre prodotti biochimici; un secondo esempio è quello del progetto per la costruzione di un impianto dimostrativo, per processare la materia prima proveniente dall’impianto industriale di Crescentino (Vercelli). In tale regione, inoltre, le Amministrazioni locali e le Università hanno sviluppato un terreno fertile per la nascita di un tessuto imprenditoriale locale ad alta tecnologia, alimentato da spin-off universitari e start-up. In Sardegna, è localizzata Matrica, la joint venture paritetica tra Novamont e Versalis nata nel 2011 nello stabilimento petrolchimico di Porto Torres per realizzare una bioraffineria per la produzione di biochemicals, biointermedi, basi per biolubrificanti e bioadditivi per gomme, con una filiera agricola integrata. (Svimez, 2017)
Altri rilevanti progetti sono presenti in Basilicata e in Sicilia. In Basilicata, a iniziative imprenditoriali di player stranieri si affianca l’attività del centro di ricerca della chimica verde dell’Enea specializzato nella ricerca sull’utilizzo delle biomasse come fonte energetica per la produzione di elettricità e calore in impianti di piccola taglia (filiere agro-energetiche locali) e in quello dei biocarburanti di seconda generazione. La regione inoltre si distingue per essere la prima ad aver fuso i cluster della chimica verde e dell’agrolimentare per costituire il cluster della bioeconomia (biogreen), facendo emergere l’importanza dell’integrazione di queste due filiere.
In Sicilia, si menziona il progetto per il recupero della raffineria di Gela dell’ENI e la sua riconversione a bioraffineria, in grado di trasformare materie prime non convenzionali di prima (olio di palma) e seconda generazione (grassi animali, olii di frittura) in green diesel, green Gpl e green nafta. Il processo di riconversione del petrolchimico di Gela vede intrecciarsi le vicende aziendali con il contesto economico, sociale e ambientale del territorio gelese. La riconversione in bioraffineria rappresenta, infatti, una concreta opportunità per migliorare dal punto di vista economico e sociale un’area economicamente depressa, in termini occupazionali, di crescita economica e di risposta alle emergenze urbane.

Industria farmaceutica
Un ulteriore comparto biobased da considerare riguarda l’industria farmaceutica che rappresenta il 2% circa sul totale della bioeconomia, con un valore della produzione nel 2016 di poco superiore a 5 miliardi di euro, in aumento rispetto al 2015. In Italia tale attività produttiva è prevalentemente concentrata in alcune regioni, come conferma la presenza di quattro rilevanti poli tecnologici nel Lazio, in Lombardia, in Campania ed in Toscana, che rappresentano in termini di valori esportati il 65% circa sul totale nazionale; in particolare, i due poli del Lazio e della Lombardia (rispettivamente, 7.430 e 4.505 milioni di euro di export nel 2016) coprono in complesso l’87% dell’export globale effettuato nel 2016 dai quattro poli considerati. Si tratta di realtà altamente specializzate, in cui è presente un tessuto produttivo di medie-grandi imprese, nazionali ed estere, fortemente internazionalizzate e con un’elevata propensione a investire in ricerca e sviluppo Il settore è caratterizzato da una struttura capillare, con 276 strutture tra impianti di produzione, centri di ricerca, sedi legali e amministrative, distribuite in 18 differenti regioni. Le principali regioni in cui prevale questo tipo di specializzazione sono le stesse in cui sono localizzati i poli farmaceutici già citati: la Lombardia (95 imprese e 10 centri di ricerca), il Lazio (41 imprese e 5 centri di ricerca) e la Toscana (26 strutture produttive e 8 centri di ricerca). (Svimez, 2017)

La bioenergia
Un ultimo segmento da considerare all’interno del settore della bioeconomia è la cosiddetta bioenergia, l’energia proveniente da fonti rinnovabili, quali biomasse, biogas, bioliquidi e rifiuti solidi urbani. Nel 2016 il valore della produzione di bioenergia è stato pari a circa 2 miliardi di euro, lo 0,9% sul complesso della bioeconomia, un peso contenuto, sebbene si sia registrato un aumento rispetto al 2015. Il trend di crescita della bioenergia si inserisce in un contesto di sviluppo generalizzato che ha riguardato tutte le diverse forme di energia da fonte rinnovabile (fotovoltaico, idrico, eolico, geotermico), a partire dagli anni Duemila. Analizzando per aree geografiche sembrerebbe che ci sia una rilevanza più omogeneamente diffusa tra aree territoriali con un peso sul totale delle fonti rinnovabili, pari al 21% per l’Italia settentrionale, al 15,8% per il Sud e al 10,5% per le regioni centrali. L’analisi regionale evidenzia una discreta varietà nell’incidenza che la bioenergia ha sul totale dell’energia prodotta in entrambe le aree del Paese, con Emilia Romagna (16%), Veneto (11%) e Lombardia (11%) al Centro-Nord e Campania (12%), Basilicata (9%) e Molise (8%) fra le regioni meridionali con un dato superiore alla media nazionale. (Svimez, 2017)

 

Le potenzialità di sviluppo della bioeconomia

L‘analisi sulla dimensione regionale della bioeconomia ha cercato di valorizzare le specificità di ciascun territorio, sia in termini produttivi che di potenzialità da sfruttare. Ne emerge un quadro estremamente eterogeno che evidenzia come ogni territorio possa contribuire, con la propria specificità, a supportare la bioeconomia nazionale, grazie a competenze e know how diffuse territorialmente. In assenza di un’azione mirata al raggiungimento di tale obiettivo il Sud rischia di restare intrappolato in una situazione di bassa produttività, trasformando un’opportunità in una sconfitta.
In termini produttivi, le regioni del Sud risultano attestate su una posizione avanzata nei settori tradizionali e, in particolare, in quello agricolo e nell’industria alimentare, la cui rilevanza si riflette sulle stesse regioni che si affacciano con sempre maggior rilevanza anche nel mondo della chimica verde grazie alla crescente interazione della filiera agricola nei processi chimici biobased. Tuttavia, in un’ottica di medio-lungo periodo, affinché le regioni meridionali possano trarre veri benefici dallo sviluppo della bioeconomia i vantaggi competitivi devono progressivamente spostarsi dai settori tradizionali a quelli più innovativi e con più alto valore aggiunto.
In termini di potenzialità da sfruttare, dalla panoramica sulle specializzazioni produttive dei territori sopra riportata, emergono importanti elementi che lasciano presagire un decisivo sviluppo per la bioeconomia nelle aree meridionali, anche se emergono, però, delle criticità che, seppure presenti in ambito nazionale, sembrano essere più radicate nelle regioni del Sud. In termini di potenzialità, ad esempio, la quota di laureati in discipline scientifiche (matematica, ingegneria, scienze) è un buon indicatore della diffusione sul territorio di competenze che possono essere considerate a supporto della bioeconomia. In Italia la quota di laureati in discipline scientifiche e tecnologiche è inferiore alla media europea (rispettivamente, 13,6% e 18,7%), evidenziando un netto ritardo del Paese rispetto ai principali competitor europei. Analizzando però il dato a livello regionale, per l’Italia emerge una discreta dispersione, con una quota di laureati in discipline scientifiche in linea col dato europeo per regioni come Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Lazio e Piemonte e valori decisamente più bassi per alcune regioni del Sud (come la Sicilia, la Sardegna, la Puglia, la Basilicata ed il Molise) e la Valle d’Aosta.
È di notevole interesse anche analizzare l’incidenza della spesa in Ricerca e Sviluppo (R&S) rispetto al PIL (elaborazioni intesa San Paolo su dati Istat), distinguendo il dato delle imprese da quello delle Istituzioni pubbliche. Nel caso delle imprese, nell’area del Centro-Nord le regioni del Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Veneto, risultano le più virtuose, con un’incidenza della spesa in R&S sul Pil compresa fra l-2%, mentre se si prende in considerazioni la spesa delle Istituzioni pubbliche (Pubblica amministrazione e Università), la maggiore incidenza della spesa sul Pil si registra nelle regioni dell’area del Centro-Sud, quali il Lazio, la Campania e la Sardegna, con un’incidenza della spesa in R&S sul Pil compresa fra 0.8-1.2%. Ad eccezione di alcune realtà emerge una fotografia in cui l’attività di R&S è fornita in maniera complementare o dal tessuto produttivo o dal mondo pubblico. Indipendentemente dal tipo di origine della spesa in R&S (privata o pubblica), l’output, misurato in termini di brevetti depositati, evidenzia un quadro eterogeneo a livello territoriale. Se regioni come Lombardia, Emilia Romagna e Veneto spiccano per intensità brevettuale, è interessante sottolineare come altri territori esprimano un maggior potenziale in termini di ricerca biotecnologica, con una quota sui brevetti in biotecnologie superiore a quella complessiva, come il Lazio e la Toscana. In tale ambito è da notare, inoltre, l’assenza di dati significativi riferiti alle regioni meridionali. (Intesa San Paolo e Assobiotec, 2017, 2018)
In via conclusiva, la bioeconomia può diventare un driver di sviluppo per l’Italia e, in particolare, per il Mezzogiorno se gli interventi di policy sono capaci di stimolare i settori maggiormente innovativi della bioeconomia, sia promuovendo politiche market uptake per i nuovi prodotti bio-based, sia favorendo meccanismi inclusivi di sviluppo che possano generare valore diffuso sul territorio.

Massimo Castellano, Unicredit

 

 

Riferimenti bibliografici

Agenzia per la Coesione Territoriale (2016), BIT. La bioeconomia in Italia. Un’opportunità unica per riconnettere ambiente economia e società, www.agenziacoesione.gov.it
Commissione Europea – Horizon 2020 – Bioeconomy, Bruxelles https://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en/h2020-section/bioeconomy
Commissione Europea (2011), Bio-based economy for Europe: state of play and future potential, Commissione Europea, Luxembourg.
Commissione Europea (2012a), Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. L’innovazione per una crescita sostenibile: una bioeconomia per l’Europa, Bruxelles, 13 febbraio
Commissione Europea (2012b), Review of the 2012 european bioeconomy strategy, Bruxelles
Ellen MacArthur Foundation (2015), Growth within: a circular economy vision for a competitive Europe, McKinsey Center for Business and Environment, www.mckinsey.de
Fumagalli S., Stoppani L., Trenti S. (2017), La bioeconomia in Italia: un’analisi regionale, in Intesa San Paolo e Assobiotec, La bioeconomia in Europa. 3° Rapporto, Intesa Sanpaolo – Direzione Studi e Ricerche, 2017, https://www.group.intesasanpaolo.com.
Intesa San Paolo e Assobiotec (2017), La bioeconomia in Europa. 3° Rapporto, Intesa Sanpaolo – Direzione Studi e Ricerche, https://www.group.intesasanpaolo.com.
Intesa San Paolo e Assobiotec (2018), La bioeconomia in Europa. 4° Rapporto, Intesa Sanpaolo – Direzione Studi e Ricerche, 2018, https://www.group.intesasanpaolo.com
ISMEA, MIPAAF e CIHEAM (2017), La bioeconomia in cifre, 2017
SVIMEZ (2017), Recenti sviluppi della bioeconomia in Italia: un driver di sviluppo per il Mezzogiorno?, in Rapporto SVIMEZ 2017 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna: Il Mulino

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