Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Lo sviluppo economico italiano: lezioni per l’Europa

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di: Gioacchino Garofoli

 

In Italia, a differenza degli altri paesi europei, esiste una lunga tradizione di lavori sullo sviluppo economico a partire dai libri di Giorgio Fuà e di Augusto Graziani. Una riflessione sulle trasformazioni economiche di lungo periodo consente di comprendere le sfide e le opportunità per lanciare strategie di investimento e sviluppo a sostegno del benessere collettivo e della qualità della vita dei cittadini.

Un’analisi del sistema economico nazionale di lungo periodo fa emergere le differenze in termini di modelli di sviluppo, del cambiamento nel tempo dei fattori di competitività del paese, delle modifiche strutturali dell’economia (dimensioni di impresa, settori prevalenti, settori di specializzazione delle esportazioni, differenze regionali), delle differenze nel tempo nelle scelte di politica economica che sono state effettuate di fronte ai problemi economico-sociali.

Da analisi di questo tipo emerge anche il ruolo di alcune variabili chiave che possono spiegare anche il relativo declino dell’industria e dell’economia italiana negli ultimi 15-20 anni ma che generalmente vengono dimenticate nel dibattito pubblico e nelle azioni dei “policy maker”  perché l’attenzione è costantemente portata sulle variabili finanziarie e monetarie. Le istituzioni europee, i grandi gruppi finanziari privati internazionali e i governi nazionali agiscono “schiacciati” sul presente e su scelte di tipo congiunturale. Dunque né gli operatori economici né l’opinione pubblica portano attenzione alle tematiche strutturali e alle scelte che favoriscono il cambiamento e che possono consentire di realizzare una auspicabile visione del futuro.

 

Le fasi di sviluppo economico in Italia

Il posizionamento dell’economia italiana è profondamente cambiato dal dopoguerra a oggi in sintonia con i vari modelli di sviluppo adottati e con le trasformazioni strutturali del sistema produttivo. Negli anni del “miracolo economico” (anni’50 e ’60) la competitività italiana era basata sul costo del lavoro per unità di prodotto (rapporto tra salari lordi, comprensivi di tassazione e oneri sociali, e produttività del lavoro). L’abbattimento dei costi di produzione via investimenti produttivi che miravano alla crescita della produttività del lavoro (oltre che della produzione) e il vincolo all’aumento salariale causato dall’eccedenza di forza lavoro (rispetto alla domanda) erano i fattori determinanti nel garantire una competitività di prezzo in una fase di domanda internazionale crescente e con mercati orientati sempre più a prodotti standardizzati (Graziani, 1972 e 2000; Garofoli, 2014).

Le prime difficoltà del posizionamento internazionale dell’Italia si registrano con il raggiungimento della “piena occupazione” e l’avvio di un modello di sviluppo “intensivo” che risparmi lavoro (e capitale), con una intensificazione dei ritmi di lavoro e con una estensione dell’orario effettivo di lavoro. Ciò genera un elevato incremento di produttività del lavoro, nonostante il crollo degli investimenti industriali (Garofoli, 2014). Gli anni che vanno dal 1964 al 1971 sono anni in cui le esportazioni aumentano fortemente ma senza più funzionare da traino per tutto il sistema produttivo (Ciocca, Filosa, Rey, 1973), perché sono fortemente basate su una sostanziale e diffusa strategia di dumping di prezzo praticata dalla gran parte delle imprese italiane esportatrici per aumentare le economie di scala e per controbilanciare il mancato sviluppo della domanda interna. In questa fase il mercato interno è sostanzialmente stagnante sia per il crollo degli investimenti sia per il mancato aumento della spesa pubblica come conseguenza delle cosiddette “riforme mancate” (Salvati, 1984 e 2000).

Negli anni ’70 e ’80, dopo la fase incerta delle ripetute svalutazioni della moneta e della conseguente elevata inflazione, si mette ordine nel sistema economico italiano ed europeo con una duplice riorganizzazione: a) ristrutturazione del regime dei tassi di cambio con l’introduzione del Sistema Monetario Europeo che impedisce la svalutazione competitiva, togliendo all’Italia uno strumento usato massicciamente negli anni precedenti; b) processo di industrializzazione diffusa con l’emergere di nuove regioni industriali (la “terza Italia”), accompagnato dall’esplosione di nuova imprenditorialità e caratterizzato da una rilevante diffusione di piccole imprese. I cambiamenti in atto nei mercati internazionali e i cambiamenti tecnici realizzati (Piore e Sabel, 1984) – soprattutto l’introduzione di macchine flessibili che riducono ampiamente il differenziale nei costi di produzione tra la realizzazione di piccoli lotti e grandi lotti – consentono alle piccole e medie imprese di adottare strategie di differenziazione del prodotto, con una competitività che non è più basata sui prezzi (e, quindi, sui costi di produzione) ma sulla capacità di saper fare diffuso e di organizzare competenze diverse, spesso presenti in altre imprese del territorio (Garofoli, 2014) [1]. Questa è la stagione dei distretti industriali e del ruolo crescente delle piccole e medie imprese nell’economia italiana. L’Italia si specializza in prodotti di elevata qualità, basati su lavoro di qualità e sulla capacità di concezione di prodotti nuovi e differenziati. Gli investimenti industriali (in innovazioni di prodotto, soprattutto, oltre che innovazioni di processo) tornano a essere relativamente elevati e non sono risparmiatori di lavoro. Le esportazioni italiane non sono determinate, dunque, da vantaggi di prezzo (e di costo del lavoro) perché nei settori di specializzazione delle esportazioni (anche se a relativamente alto contenuto di lavoro), sono superiori ai prezzi praticati dalle imprese dei principali paesi europei [2]. L’Italia diventa il secondo paese manifatturiero d’Europa, complessifica il sistema produttivo, aumentando l’integrazione tra imprese e settori (con un ruolo determinante della meccanica strumentale e della produzione di macchine e attrezzature), rafforzando progressivamente anche i rapporti tra industria e servizi alla produzione che consente una trasformazione orientata all’innovazione e ai mercati esteri. L’Italia segue dunque un percorso di trasformazione economica e di posizionamento internazionale molto diverso rispetto a quello precedente, e che sembra una sorta di “nemesi storica” rispetto a quello proposto nel 1947 dall’ingegner Gallo alla Commissione Economica dell’Assemblea Costituente (Garofoli, 2014, p. 87).

La terza fase viene introdotta da una crisi finanziaria in Europa, generata a seguito del processo di unificazione politica tedesca (Garofoli, 2014, pp. 112-116), che mette in serie difficoltà la costruzione del Sistema Monetario Europeo: l’Italia e altri paesi (a partire dal Regno Unito) escono dallo sme e la lira svaluta sensibilmente (mediamente del 40% rispetto alle altre monete, ma di circa il 50% nei riguardi del marco tedesco). Ma in questa fase inizia anche un processo di crescente globalizzazione e di progressiva delocalizzazione produttiva che interessa, via via, tutti i paesi avanzati con notevoli effetti strutturali sulle loro economie. La conseguenza, forse più rilevante, è stata la notevole riduzione del rapporto tra investimenti e pil in tutti i paesi europei (ma analogamente è avvenuto negli altri paesi avanzati), con gli evidenti riflessi sul tasso di occupazione (specie nel settore industriale) e, successivamente, sulla quota di reddito distribuito ai lavoratori e sulla domanda aggregata e, di nuovo in un circolo vizioso, sulla riduzione degli investimenti.

In questo periodo la posizione internazionale dell’Italia assume aspetti paradossali. Da un lato la forte svalutazione della moneta che non si accompagna a un parallelo aumento dell’inflazione, a differenza di quanto avvenuto negli anni ’70, grazie alla concertazione sociale introdotta dal governo Ciampi, determina un rapido aumento delle esportazioni soprattutto nei settori e nei comparti legati al prodotto di qualità, con un progressivo spiazzamento dei produttori degli altri paesi europei. L’incredibile aumento di domanda per le imprese italiane si scontra con le difficoltà di aumentare la produzione nelle aree in cui quei prodotti erano fabbricati (soprattutto nelle aree organizzate in distretti industriali) per la presenza di situazioni prossime alla piena occupazione (almeno per le figure professionali legate ai processi di trasformazione di quelle produzioni). Le imprese che si trovano a rispondere ad aumenti considerevoli degli ordini sono dunque costrette a introdurre processi di delocalizzazione e di outsourcing (Garofoli, 1999). Il paradosso è, dunque, nell’irrazionalità di rispondere con logiche che normalmente sono legate a una competizione di costo per aree e produzioni che competevano sulla qualità e l’innovazione.

Gli anni successivi sono caratterizzati dall’introduzione dell’Euro e, successivamente dalla lunga crisi economica internazionale, che incide fortemente soprattutto in Europa, a seguito di scelte di politica economica che non rispondono coerentemente ai problemi strutturali di gran parte, se non della totalità, dei paesi europei.

 

Politiche economiche alternative: il ruolo degli investimenti

Basta prendere in considerazione l’andamento di lungo periodo degli investimenti (meglio se rapportati al PIL) per comprendere che senza uno sforzo per il cambiamento e l’innovazione il nostro paese non potrà rispondere alle sfide economiche. Gli investimenti sono fortemente mancati in Italia  a partire dai primi anni ’90, come già erano mancati nella seconda parte sia degli anni ’60 che degli anni ’70. Sono mancati, in particolare, gli investimenti pubblici e gli investimenti delle imprese a partecipazione pubblica. Ma sono fortemente diminuiti anche gli investimenti delle imprese private.

La seconda variabile che spiega il “restringimento” dell’economia italiana è la distribuzione del reddito. La quota di reddito distribuita ai lavoratori è sensibilmente diminuita a partire dalla seconda parte degli anni ’70. Come è possibile, dunque, aumentare la domanda aggregata senza aumento dei consumi privati? L’insufficienza della domanda aggregata frena, poi, gli investimenti e, di conseguenza, l’occupazione.

D’altronde, se riflettiamo sulle condizioni dell’economia europea, i grandi problemi sono proprio l’insufficienza della domanda aggregata e i bassi tassi di occupazione rispetto alle altre aree mondiali. Una visione di lungo periodo facilita, dunque, la comprensione dei gravi problemi economici e sociali emersi negli ultimi anni in Italia e in Europa e dovrebbe far emergere l’opportunità di politiche economiche alternative.

Si può dunque ben comprendere come, oggi, la questione fondamentale per l’economia italiana e per quella europea consista nell’immediato avvio di investimenti pubblici e produttivi, che soli potranno far ripartire l’occupazione e la domanda aggregata. Già da alcuni anni sono emerse posizioni e proposte convincenti per un new deal europeo [3] che consenta di far scattare l’orgoglio e la responsabilità dei policy maker europei rispetto al difficile momento non solo economico ma anche sociale e politico del nostro continente. Deve cambiare l’orientamento della politica economica europea che non ha neppure bisogno di modificare i trattati esistenti ma che può muoversi agevolmente all’interno delle istituzioni e delle regole già fissate (cfr. Pavia Declaration, 2015). Ciò che occorre è un cambio culturale e di prospettiva che elimini le ottusità contabili e che apra a visioni strategiche sul prossimo futuro. Ad esempio, non c’è visione strategica del futuro industriale e dello sviluppo economico europeo ma solo un insieme di documenti e di regolamenti che danno luogo a un insieme che può apparire frantumato e che consente esclusivamente operazioni di bricolage economico.

Ma affrontare il tema di un diverso orientamento agli investimenti in Europa non è solo questione di poter organizzare una diversa posizione nei riguardi degli investimenti e della crescita della domanda aggregata, è anche una questione di sensibilità e di competenze professionali che sono alla base della capacità di organizzare progetti di sviluppo e di investimento. Queste capacità dipendono dai valori e dalla sensibilità alla soluzione dei problemi dell’economia e della società che sono organizzabili e mobilitabili a scala della comunità locale e regionale. In altri termini, la questione fondamentale diventa quella di mobilitare gli attori per risolvere problemi diffusi sul territorio e che danno luogo a progetti di investimento che sono gestibili e finanziabili a livello locale. La crisi economica è perdurata nel tempo non solo per le erronee posizioni delle istituzioni europee e nazionali, ma anche per l’insufficiente risposta “dal basso” alle nuove esigenze che si stavano manifestando proprio in conseguenza della crisi (cfr. le relazioni presentate alla Sessione organizzata in collaborazione con l’AENL alla Conferenza AISRe di Torino del 2011). Pertanto una strategia di elevati investimenti in Europa è questione sia di un diverso orientamento della politica economica europea che di capacità di avviare “dal basso” progetti di sviluppo e di individuare gli attori cruciali che possono farsi carico di bisogni diffusi da parte dei cittadini e che restano insoddisfatti per carenza di interventi pubblici e privati.

I grandi progetti di investimento (ad esempio, una strategia coerente europea per le energie rinnovabili o per i trasporti collettivi con forte riduzione dell’impatto inquinante) e la visione dello sviluppo si devono ormai organizzare a livello europeo e sovranazionale. I progetti di investimento di piccola e media dimensione (che abbiano impatto sui bisogni e le esigenze di comunità territoriali e sub-regionali) devono essere pensati, realizzati e gestiti da un pool di attori pubblici e privati organizzabili a scala locale e regionale, e che possono mobilitare risorse (conoscenze, competenze tecnico-professionali, risorse finanziarie accumulate nel passato) sia prodotte a livello territoriale sia intercettando competenze esterne facilmente coinvolgibili e riaggregabili attraverso procedure di cooperazione (basti pensare al ruolo di interfaccia che potrebbero giocare le reti – ovunque esistenti – tra Università e centri di ricerca) e alleanze strategiche interregionali e transfrontaliere.

Gioacchino Garofoli, Università dell’Insubria

 

Riferimenti  bibliografici

Best M. (2013), Productive structures  and Industrial Policy in the EU, http://ww2.euromemorandum.eu/uploads/best_productive_structures_and_industrial_policy_in_the_eu.pdf

Ciocca P., Filosa R., Rey G. (1973), Integrazione e sviluppo dell’economia italiana nell’ultimo ventennio: un riesame critico, Contributi alla ricerca economica, Banca d’Italia,  n. 3, dicembre

Galbraith J.K., Holland S., Varoufakis Y. (2014), Modeste proposition pour résoudre la crise de la zone euro, Les Petits Matins, Paris

Garofoli G. (1999), Sistemi locali di imprese e performance dell’impresa minore in Italia, in traù f. (a cura di), La questione dimensionale nell’industria italiana, il Mulino, Bologna

Garofoli g. (2014), Economia e politica economica in Italia. Lo sviluppo economico italiano dal 1945 ad oggi, FrancoAngeli Editore, Milano

Ginzburg A., Simonazzi A.M. (2015), The interruption of industrialization in Southern Europe: a centre-periphery perspective, Conference on Alternative economic policies in Europe, Pavia, 24th -25th April 2015

Graziani A. (1972), L’economia italiana: 1945-1970, il Mulino, Bologna

Graziani A. (2000), Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Bollati Boringhieri, Torino

Modiano P. (1982), Competitività e collocazione internazionale dell’industria italiana: il problema dei prodotti tradizionali, Economia e Politica Industriale, n. 33

Modiano P. (1984), La collocazione internazionale dell’industria italiana: un tentativo di interpretazione di alcune tendenze recenti, Economia Italiana, n. 3, settembre-dicembre

Pavia (The) Declaration (2015), A New Deal for a Social and Democratic Europe, document signed         after the Pavia Conference on “Alternative economic policies in Europe”, April, www.aenl.org

Piore M., Sabel C. (1984), The Second Industrial Divide, Basic Books, New York (trad. it. Le due vie dello sviluppo industriale, Isedi, Torino, 1987)

Salvati M. (1984), Economia e politica in Italia dal dopoguerra ad oggi, Garzanti, Milano

Salvati M. (2000), Occasioni mancate. Economia e politica in Italia dagli anni ’60 a oggi, Laterza, Roma – Bari

Varoufakis Y., Holland S. (2011), A Modest Proposal for Overcoming the Euro Crisis, Policy Note, Levy Economics Institute of Bard College, n. 3

 

Note

[1] Cfr. anche M. Best (2013) e il recente lavoro di A. Ginzburg e A. Simonazzi (2015).

[2] Vale la pena ricordare come tutto ciò fosse già chiaro, ai più attenti osservatori, nei primi anni Ottanta (Modiano, 1982 e 1984).

[3] Stuart Holland sta promuovendo, da alcuni anni, un confronto e un dibattito non solo con gli economisti ma anche con le istituzioni europee a partire appunto da una Modest proposal con alcuni documenti, inizialmente firmati con Varoufakis sin dal 2010 (cfr. Varoufakis, Holland, 2011) e poi anche con J. Galbraith (cfr. Galbraith, Holland, Varoufakis, 2014).

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