Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Capitale umano, università e sviluppo regionale (2)

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Questo articolo è tratto dall’ intervento dell’autore alla sessione plenaria dei Rettori delle Università meridionali “Capitale umano, sistema universitario e sviluppo regionale”, tenutasi il 14 Settembre 2015 a Rende (CS), in occasione dell’ultima Conferenza Scientifica dell’AISRe. Considerata la rilevanza e l’attualità degli argomenti trattati, la Redazione ha ritenuto utile pubblicarlo e condividerlo con i lettori di EyesReg.

 

di: Alessandro Bianchi

EyesReg, Vol.6, N.2, Marzo 2016

 

Il presupposto delle riflessioni che seguono è la necessità di sottrarre il capitale umano allo stato di abbandono nel quale è stato lasciato ormai da troppo tempo, perché questa è una delle condizione basilari per superare la drammatica crisi che ha attanagliato il Paese –  e il Mezzogiorno in particolare – dal 2008 ad oggi.

Ciò che è accaduto in questi lunghi anni all’economia, alla società e al territorio del Mezzogiorno, si desume in modo evidente dai dati del “Rapporto SVIMEZ 2015” riferiti al periodo 2008-2014.

Per quanto riguarda la struttura economica si è avuto un vero e proprio collasso, caratterizzato da stagnazione della produzione, diminuzione dei redditi, contrazione dei consumi, crollo dell’occupazione. In particolare, il PIL si è ridotto del -13,0 % (-7.4% nel CentroNord); gli investimenti nell’industria in senso stretto hanno subito un vero e proprio tracollo: – 59.3% ( -17.1 % nel CentroNord); quelli in agricoltura sono diminuiti del -38,1% (-10,8 nel CentroNord).

Le conseguenze sul mercato del lavoro sono state devastanti, con una perdita di 576.000 posti di lavoro su un totale nazionale di 811.000, vale a dire che il 71% della perdita si è concentrato in un territorio che rappresenta circa il 30% del Paese. E la perdita maggiore si è avuta tra i giovani di età 15-34 anni, il cui tasso di occupazione si è ridotto al 26.6% (47.0 % nel CentroNord). Infine, la perdita o la contrazione dei redditi ha portato il 32.8% della popolazione a rischio povertà.

Quanto alle condizioni sociali il dato più eclatante riguarda la massiccia ripresa del fenomeno migratorio, che  tra il 2001 e il 2014 ha portato fuori dal Mezzogiorno 744.000 persone. Di queste, 526.000 (il 71%) sono giovani di età 15-34 anni, di cui 205.000 (il 39%) sono laureati. Ma vi è stata anche un’ulteriore diminuzione delle nascite – in continuità con un fenomeno che si protrae da molti decenni – che si stima porterà tra cinquanta anni la popolazione del Mezzogiorno dagli attuali venti milioni a circa diciassette milioni, con un complessivo invecchiamento di tutta la società meridionale. Se si aggiunge che i servizi sociali sono allo stremo, che l’inefficienza e la corruzione nella macchina amministrativa sono a livelli altissimi e che  la criminalità organizzata è una presenza ormai dominante, non è azzardato dire che il quadro che emerge è drammatico.

Per quanto riguarda il territorio, va anzitutto detto che l’ambiente naturale  – l’acqua, l’aria, il suolo – versa in una condizione di alterazione e di mancanza di difesa da doverlo considerare insostenibile nei termini in cui la scienza definisce la “sostenibilità”. Ma va anche segnalata l’arretratezza delle infrastrutture di trasporto (strade, ferrovie, porti, aeroporti, interporti) che impedisce la connettività tra le diverse parti del territorio, così come la mancanza di reti telematiche che determina un enorme “digital divide” con il resto del Paese.

Infine le città – sia “metropolitane” che “medie”, secondo le denominazioni adottate nell’attuale programmazione – dove si sono create situazioni di vera e propria emergenza: congestione del traffico, inefficace smaltimento dei rifiuti, inquinamento, disordine urbanistico, degrado edilizio, consumo energetico, mancanza di sicurezza, perdita della “forma urbis”.

 

La questione del “che fare”?

Se questo è il quadro attuale in cui versa il Mezzogiorno, la domanda che si pone in modo perentorio è: cosa fare per uscire da questa condizione?

Fermo restando che sarebbe necessaria una visione strategica di alto profilo e di lunga prospettiva per l’intero Paese, cosa di cui non si vede traccia a livello statale, vi è una proposta specifica per il Mezzogiorno che la SVIMEZ ha avanzato già da tempo. E’ quella di un “Piano di primo intervento” basato su alcuni  drivers dello sviluppo: logistica, energie rinnovabili, agroalimentare e agroindustria, rigenerazione urbana e ambientale, industria culturale e del turismo, ricerca e innovazione.

Un piano di breve-medio periodo, tre-cinque anni, che non è alternativo all’azione strategica di lungo periodo cui si è fatto cenno – in particolare il rilancio di una politica industriale nel settore manifatturiero – ma indica alcune azioni concrete utili a fronteggiare l’emergenza occupazionale e a dare una prima “scossa” all’economia, alla società e al territorio meridionale.

E qui entra in gioco il discorso sul capitale umano. Infatti da dove partire per fare in modo che questo piano prenda piede se non dal capitale umano giovanile, che costituisce l’elemento basilare per lo sviluppo delle azioni proposte? Secondo la Banca d’Italia un aumento del 10% della quota di lavoratori laureati porterebbe un aumento dello 0,7% della produttività. Inoltre, dal punto di vista individuale, un anno in più di istruzione ha un rendimento annuo pari al 9% in termini di maggiore retribuzione.

Purtroppo, come si è visto in precedenza, sono proprio i giovani con un livello di istruzione alto ad aver abbandonato in gran numero il Mezzogiorno. Dunque questo è il primo nodo da affrontare, ed è un nodo che chiama in causa le Università, luogo primario della formazione del capitale umano di cui stiamo parlando.

 

Il ruolo delle università

La storia delle università del Mezzogiorno, con tutte le critiche che vengono sollevate – dalla proliferazione delle sedi ai bassi livelli di qualità – è indubbiamente una storia di successo.

Il problema è che le critiche derivano per lo più dalla mancata comprensione del ruolo che le università hanno assunto nei territori  meridionali, che non è solamente quello di svolgere il compito canonico di fare didattica e ricerca, ma anche quello che oggi viene riassunto nel termine di “terza missione”, ovvero di essere un soggetto attivo all’interno della società, capace di interpretarne i problemi e ascoltarne le istanze,  diventando così un elemento di crescita sociale, di sviluppo economico e anche, come è avvenuto in molti casi, di riqualificazione delle città in cui sono ubicate.

Ma ciò detto, per sgombrare il terreno dai grossolani giudizi che spesso si sentono esprimere sia sulla grande stampa che in ambienti ministeriali, la questione che viene sollevata dalle università stesse è come sia possibile rilanciarne la loro presenza come fattore di sviluppo se permane una logica di progressiva contrazione dei finanziamenti.

La questione è indubbiamente fondata, ma va affrontata anzitutto mettendo in evidenza che questa contrazione è determinata soprattutto dal trasferimento di risorse dalle università meridionali a quelle del CentroNord. E’ una realtà ormai ampiamente dimostrata, di cui si dovrebbe prendere atto a livello centrale modificando alcuni distorti meccanismi di distribuzione dei fondi – primo fra tutti la cosiddetta “premialità” –  che ne sono la causa principale.

Ma dato atto dell’esistenza di questa distorsione, credo che le università dovrebbero fare una riflessione più approfondita e oggettiva sulle cause della crisi che le investe in termini di diminuzione degli iscritti e dei laureati, di abbandoni e, per le università meridionali, di fuga degli studenti verso sedi del CentroNord.

La domanda da porsi è: la diminuzione dei finanziamenti ha determinato la crisi o è la crisi che  ha indotto a diminuire i finanziamenti?

Detto in altri termini ci dovremmo chiedere se la caduta dei finanziamenti non sia un riflesso della perdita di ruolo delle università, perché è evidente che in nessun posto del mondo verrebbero sottratti finanziamenti ad una struttura di successo, ad una struttura che ha un ruolo importante nell’economia e nella società a livello nazionale, regionale e locale. Se questo è avvenuto forse non è solo per la minore disponibilità di risorse, ma anche perché l’università ha avuto ruolo meno nitido, meno chiaro, meno importante, meno determinante all’interno dell’architettura complessiva delle istituzioni del Paese.

E’ una riflessione amara da fare, ma necessaria se si vuole uscire da una condizione di semplice recriminazione e rivendicazione, puntare a riacquistare credibilità e porsi in modo propositivo.

Le strade da percorrere sono molteplici, ma quella che sembra più evidente nella condizione del Mezzogiorno è la creazione di sistemi e sottosistemi di università, partendo dalla constatazione che attualmente non esiste un sistema universitario nazionale né, tanto meno, meridionale. Le università italiane sono un insieme sciolto e ancor più lo sono le venticinque università meridionali, che hanno una spiccata tendenza non alla competizione, fattore certamente positivo, ma alla duplicazione di funzioni e alla sovrapposizione, fattore certamente negativo. Per superare questa dimensione è necessario percorrere la strada della creazione di sistemi e sottosistemi, a cominciare da quelli regionali, che grazie al coordinamento e all’interscambio esaltino le potenzialità di ciascuna sede universitaria e creino la capacità di dare risposte a livelli più elevati.

Diversamente si lascerà spazio a chi ormai parla di università di serie A e di serie B,  ipotizzando che le seconde debbano diventare delle semplici “teaching university”, che è come negare la storia stessa dell’università italiana, caratterizzata da un’intima integrazione tra ricerca e didattica.

Poiché sembra di capire che a livello ministeriale e governativo si stia per avviare una nuova riforma universitaria, dopo quella disastrosa che l’ha preceduta, questo è il momento giusto nel quale le università debbono far sentire la loro voce avanzando in modo coordinato proposte costruttive, in grado di dare senso compiuto all’idea stessa di “riforma” quando questa riguarda uno dei pilastri della società italiana.

Alessandro Bianchi, Rettore Università Telematica Pegaso

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