Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

“Lost in translation” nelle scienze regionali. Il ricercatore inter-disciplinare: chi è costui?

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di: Giulia Pesaro e Dario Musolino

EyesReg, Vol.3, N.6 – Novembre 2013.

In occasione della conferenza ERSA di Palermo, il Professor Masahisa Fujita ha tenuto una lecture davvero molto interessante, dal titolo “Regional integration and culture in the age of knowledge creation”. La presentazione era incentrata sulla necessità di una rinnovata attenzione alle diversità delle culture locali, rappresentate metaforicamente da lingue diverse, come valore e ricchezza fondamentale per la produzione di conoscenza comune e come fattore determinante di nuova e più fruttifera ricerca. Da qui il tema della formazione di una Brain Power Society e della conseguente centralità della comunicazione come fattore fondamentale per mettere a contatto e far convergere le diverse culture verso un lavoro di ricerca comune. Certamente stimolante quindi l’immagine di un mondo di ricercatori, ognuno proveniente dal suo paese e portatore non solo di una lingua ma anche della cultura che le è collegata, le cui capacità di contatto e cooperazione sono determinanti per la produzione di nuova conoscenza. Le basi della conoscenza comune sarebbero quindi rappresentate, semplificando al massimo, dall’attività di ricerca svolta in comunicazione continua tra più ricercatori, con risultati potenzialmente maggiori della somma di ricerche separate. La traduzione tra le lingue e le culture appare, di conseguenza, fattore determinante perché tutto ciò possa avvenire.

A fronte di questi ragionamenti è emerso un secondo ordine di riflessioni, parallelo al primo. La sfida delle scienze regionali alla creazione di nuove frontiere della ricerca e del knowledge building appare risiedere non solo nel contatto tra ricercatori della stessa area disciplinare, pur arricchiti dallo scambio culturale, ma anche nella capacità di comunicazione tra ambiti disciplinari diversi. Qui infatti la diversità che può arricchire la ricerca e favorire la produzione di conoscenza comune e di innovazione è ancora maggiore. Se infatti è vero che l’oggetto della ricerca è il territorio, essendo questo un insieme complesso di risorse eterogenee che interagiscono tra loro in un divenire continuo, allora sembra logico immaginare che la ricerca stessa sia tanto più adeguata quanto più sia capace di far convergere saperi, capacità e competenze diverse in progetti comuni. Facendo quindi riferimento ad un suo precedente saggio con Berliant (2007), Fujita mette anche in evidenza come l’incontro tra soggetti portatori di conoscenze eterogenee sia tanto più vantaggioso quanto maggiore è l’unicità, e quindi la diversità, delle idee di cui ogni ricercatore è portatore.

Il ricercatore “traduttore” …

Ma cosa succede se ci si spinge più in là e, oltre a idee e contenuti diversi, si fa riferimento anche a una diversità di approcci, metodologie e tecniche per affrontare una determinata research question? Si crea allora spazio per considerare con rinnovata attenzione il ruolo e le potenzialità del ricercatore interdisciplinare che, proseguendo nella logica del knowledge building, può rappresentare un fattore di moltiplicazione nella relazione positiva determinata dall’incontro tra ricercatori. In particolare, ciò avviene per due motivi.

Innanzitutto, perché svolge in modo naturale il ruolo di ponte tra discipline diverse utili ad affrontare determinati quesiti complessi e differenziati, peraltro non senza discussioni e punti di vista anche contrastanti, come ben evidenziato in Buanes e Jentoft (2009). Scendendo per esempio nel campo della ricerca applicata alle problematiche ambientali e di sostenibilità dei modelli socio-economici, il ruolo cruciale e il valore di un lavoro interdisciplinare appare chiaro e forte. Sono infatti molteplici gli elementi e le dinamiche di cui occorre comprendere appieno i meccanismi, al di là del riferimento specifico e teorico ad ogni singolo ambito disciplinare, per affrontare adeguatamente gli effetti territoriali delle catastrofi naturali e antropiche (soprattutto nella prospettiva della prevenzione del rischio e del danno), o per sviluppare percorsi di crescita e innovazione basati sulla knowledge society o sulla fruizione sostenibile del patrimonio culturale e sociale di un territorio.

In secondo luogo, perché produce per definizione conoscenza innovativa che potrebbe successivamente evolvere in nuove dimensioni disciplinari. È questo per esempio il caso delle nuove declinazioni dell’economia che, a contatto con le scienze della terra, la fisica, l’ecologia, la sociologia, l’antropologia e la filosofia, ha dato vita a nuovi filoni che vanno dall’economia ambientale all’economia ecologica, dalla green economy alla teoria dello sviluppo sostenibile, dall’economia della giustizia fino a frontiere come quella della economic anthropology.

Questo ideal-tipo di ricercatore “ha il coraggio” di porsi in spazi di confine tra le varie discipline, in qualche modo operando da traduttore tra i diversi punti di vista e prospettive conoscitive e analitiche in differenti campi disciplinari. Traduttore nella misura in cui ha sviluppato la propria conoscenza e approfondito elementi appartenenti ad ambiti diversi, per poi utilizzare tali competenze nell’ambito di progetti di ricerca condivisi. E, come affermano Buanes e Jentoft (2009), “sa entusiasmarsi” per le possibilità aperte da un approccio a più dimensioni “An interdisciplinary researcher acknowledges that a problem can be viewed from different perspectives, but contrary to the disciplinary researcher he or she is also capable of making shifting perspectives and feel enthused by it”.

Parliamo di un profilo di ricercatore che lavora prevalentemente in gruppo, attrezzato ed esperto delle varie metodologie e tecniche di ricerca, senza essere fossilizzato, blindato in maniera esclusiva in una sola delle grandi “famiglie metodologiche” strettamente quantitative o qualitative. Anzi, capace di modulare l’uso delle varie metodologie senza barriere mentali, avendo come principi guida la profondità, la completezza e la rigorosità della ricerca. Un tipo di ricercatore consapevole che lo studio del territorio, proprio in quanto “oggetto” complesso, differenziato e multidimensionale, “domanda” necessariamente, anche nello stesso progetto, sia sofisticate analisi econometriche sia approfondimenti sul campo, con interviste e focus group di confronto e interazione con gli attori.

I distretti industriali, archetipo di sviluppo socio-economico territoriale, e primo laboratorio delle scienze regionali in Italia (ovverossia, laboratorio di formazione di una generazione di scienziati regionali), rappresenta l’esempio, ancora vivo seppur mutevole, di come l’approccio ottimale, allo studio del territorio del singolo ricercatore deve necessariamente mantenere un range, una varietà molto ampia di strumenti, tecniche, approcci, e angolature analitiche.

…. e “orizzontale” …..    

Prendendo a prestito la teoria della “T-shaped skills” introdotta da Iansiti (1993) e poi ripresa sempre più spesso in articoli dedicati al knowledge building e management, potremmo parlare di figure capaci di guardare a più campi di ricerca e approcci metodologici – il tratto orizzontale della T – accanto a competenze più approfondite per settore – il tratto verticale della T. La ricerca interdisciplinare è quella che più di tutte si sviluppa lungo i due tratti della T delle competenze e conoscenze utili per la produzione di innovazione, e i ricercatori capaci di guardare in orizzontale oltre che in verticale ne rappresentano le risorse portanti.

Il ricercatore “orizzontale” può rappresentare l’elemento di catalizzazione in un ambiente fertile perché capace di cogliere molteplici spunti diversi e di sviluppare riflessioni seguendo strade più innovative. Un catalizzatore, dunque, che guardando ai problemi da più punti di vista e applicando forme di pensiero orizzontali produce o contribuisce a produrre innovazione (si veda in questo senso Nissani, 1997). Una prova in questo senso è costituita dallo strumento sempre più utilizzato del workshop, non più sinonimo di “seminario” in senso tradizionale, ma occasione di lavoro comune e di scambio: un terreno su cui il ruolo del ricercatore “traduttore” diventa determinante, in quanto interprete in tempo reale che deve cercare di comprendere, assumere e comunicare punti di vista che non sono ancora condivisi tra ricercatori di mondi diversi (come dice Fujita con le loro lingue e culture).

In questo senso il ricercatore orizzontale non interpreta in modo “neutrale” i diversi linguaggi ma, avendo esplorato e almeno in parte approfondito diverse possibilità, facilita la condivisione della conoscenza fino ad elaborare risultati innovativi utilizzando nuovi punti di vista capaci di connettere elementi e approcci più fortemente legati alla disciplina di origine. Il che significa anche che per essere un “buon traduttore” si deve studiare molto su aspetti diversi ed essere aperti alle diversità culturali, di cui peraltro tanto si parla tanto sia nelle scienze regionali che in termini di knowledge society. L’obiettivo è infatti quello dell’individuazione di collegamenti tra temi ed approcci in funzione di una maggiore forza descrittiva, interpretativa e operativa sia nella ricerca di base che applicata, immaginando interazioni possibili su più livelli.

La logica di azione orizzontale del ricercatore “traduttore” si può applicare a temi trasversali che riguardano la tutela e valorizzazione delle risorse territoriali, per esempio in una prospettiva di sviluppo capace di minimizzare il consumo di risorse e di massimizzare le esternalità positive. Parole “da economista” che si applicano però a tematiche “non da economista”, quali la protezione e valorizzazione di risorse sociali, culturali e ambientali di cui è necessario capire caratteristiche, interazioni e dinamiche. Parole “da economista” che incontra altre discipline per favorire la realizzazione di modelli e strumenti a supporto di processi decisionali pubblici e privati, di cui è importante conoscere i meccanismi stessi. Oppure può caratterizzare le analisi valutative, dimensione di studio e intervento sempre più rilevante nelle scienze regionali, e in cui gli approcci partecipati tendono a diventare sempre più il linguaggio dominante.

Eppure, cosa accade nel concreto ad un economista che scende nella mischia del territorio e, pur parlando di valori, risorse, costi e benefici, efficacia ed efficienza, lavora come traduttore ed elemento di catalizzazione di saperi disciplinari, modelli interpretativi e strumenti senza addentrarsi necessariamente nei menadri del dettaglio in dimostrazioni numeriche o matematiche complesse?

La ricerca interdisciplinare tra barriere e ostacoli …

Immaginiamo ora quali spazi si potrebbero aprire nelle scienze regionali e del territorio per pratiche realmente interdisciplinari che, apparentemente chiare sulla carta, appaiono ancora di difficile applicazione proprio per la diversità dei linguaggi, per la presenza di ostacoli culturali alla comunicazione, e per la mancanza di luoghi in cui la conoscenza trasversale riesca ad essere effettivamente ed adeguatamente valorizzata (nella logica di massimizzazione della produzione di common knowledge di Fujita). Spazi in cui l’interdisciplinarietà sia un valore e non un ostacolo dal punto di vista della valutazione del lavoro di ricerca.

Il lavoro sui confini, nonostante l’indubbio valore nel campo della ricerca applicata, si trova di fronte a molti ostacoli specifici, detti barriere all’interdisciplinarietà. Per esempio Lélé e Norgaarg (2005), sulla base di esperienze dirette sul campo, individuano quattro tipi di difficoltà: il problema del riconoscimento dei valori e dei criteri di valutazione; la presenza di approcci teorici e modelli esplicativi della stessa realtà molto diversi tra loro; le differenze dal punto di vista epistemologico che influenzano assunti, metodi e strumenti di analisi e interpretazione; il modo in cui la società si interfaccia con l’accademia e l’organizzazione dell’accademia stessa, che influiscono sulle potenzialità di produzione di saperi interdisciplinari.

Collegato all’ultimo punto, è a nostro avviso da considerare con attenzione anche quello rappresentato dalla crescente difficoltà di portare a pieno titolo nell’accademia le dimensioni di un lavoro di ricerca interdisciplinare innovativo. Nella didattica, per esempio, nonostante la buona accoglienza da parte degli studenti, ci sono ancora molti ostacoli, nonostante esperienze positive come quelle di alcune aree dell’architettura e dell’urbanistica che considerano con più attenzione aspetti di tipo ambientale, sociale ed economico. E’ però davvero poco, oggi come oggi, lo spazio per poter proporre agli studenti un’offerta di apprendimento stabile in questo senso. Il motivo principale, d’altra parte, sembra risiedere non tanto nella volontà quanto piuttosto nei limiti intrinseci di un’offerta didattica che, specialmente nella laurea triennale ma non solo, non riesce più ad andare oltre le, indubbiamente necessarie, principali basi teoriche e metodologiche delle diverse discipline, stante una struttura degli studi universitari curriculari che ha ridotto all’osso i corsi facoltativi e gli approfondimenti.

 

Conclusioni … e auspici

Il tema dell’interdisciplinarietà è indubbiamente delicato, specie alla luce di un dibattito che si sta allargando a diversi settori della ricerca. Si tenga conto infatti che il dibattito sull’interdisciplinarietà appare già sviluppato in altri ambiti, molti dei quali legati ad elementi di studio che riguardano il funzionamento delle società. Tra questi figurano per esempio scienze della terra, geografia, biologia, ecologia, scienze cognitive, antropologia, sociologia, scienze politiche, fino ad alcune branche di medicina relativamente ad aspetti di salvaguardia della salute e di visione sistemica nell’ambito delle attività di cura e assistenza (per esempio Casagranda, 2010), oltre a studi direttamente legati all’educazione e formazione, e alla ricerca intesa essa stessa come settore di approfondimento (per esempio van Rijnsoevera, e Hesselsc, 2011).

Le scienze regionali per definizione sono vocate all’interdisciplinarietà, e non a caso nello statuto dell’Aisre, art. 4, si dice testualmente che l’associazione “promuove la circolazione delle idee e delle attività di ricerca sui problemi regionali che utilizzino strumenti, metodi e schemi tecnici specificamente elaborati per le analisi regionali, come anche l’adattamento di concetti, procedure e tecniche analitiche proprie di altre scienze”. I fondatori dell’Aisre avevano evidentemente e naturalmente ben chiaro, sin dagli albori, questa caratteristica peculiare e a suo modo unica di questo ramo disciplinare nel panorama delle scienze sociali ed economiche.

E però l’impressione è che ancora la “missione dell’interdisciplinarietà” è ben lungi dall’essersi compiuta e realizzata. E non a caso il ricercatore “traduttore” trova difficilmente un percorso accademico adeguato al suo profilo, e le sue pubblicazioni faticano molto a trovare la giusta collocazione, per quanto il lavoro di ricerca possa essere impostato secondo criteri scientifici e sia foriero di risultati e soddisfazioni. In un’epoca in cui il modello dell’iper-specializzazione, dell’iper-professionalizzazione sta iniziando a mostrare i suoi limiti, il modello di conoscenza “orizzontale”, versatile, eclettico, aperto, dialogico, del ricercatore “traduttore” interdisciplinare, allora potrebbe essere forse la chiave di volta per spostare gli studi regionalistici dalla via stretta e obbligata dello specialismo, e portarli nella direzione della costruzione di figure e profili di “lavoratori della conoscenza” più forti, spendibili e competitivi nel mercato globale del lavoro.

Giulia Pesaro,  DAStU Politecnico di Milano

Dario Musolino, CERTeT – Università Luigi Bocconi

Riferimenti bibliografici

M. Berliant, M. Fujita (2007), “Dynamics of knowledge creation and transfer: The two person case”, MPRA Paper N. 4973.

A. Buanes, S. Jentoft (2009), “Building bridges: Institutional perspectives on interdisciplinarity”, in Futures 41.

M. Iansiti (1993), “Real-World R&D: Jumping the Product Generation Gap”, in Harvard Business Review, Vol. 71(3).

M. Nissani (1997), “Ten Cheers for Interdisciplinarity: The Case for Interdisciplinary Knowledge and Research”, in The Social Science Journal, Vol. 34, N. 2.

S. Lélé, R.B. Norgaarg (2005), “Practicing interdisciplinarity”, in BioScience, Vol. 55, Nr 11.

I. Casagranda (2010), “AcEMC: un anno pieno di soddisfazioni all’insegna dell’interdisciplinarietà”, in Emergency Care Journal, Anno VI, N. 4, Dicembre.

F. J. van Rijnsoevera e L. K. Hesselsc (2011), “Factors associated with disciplinary and interdisciplinary research collaboration”, in Research Policy40.


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