Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Fra federalismo e abolizione dell’imu: la crisi e l’incerto ruolo dei governi locali nell’architettura istituzionale italiana

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di: Carlo Fusaro, Alessandro Petretto e Sabrina Iommi

EyesReg, Vol.3, N.4 – Luglio 2013.

Secondo lo slogan che ci ripetiamo continuamente, un po’ per consolarci un po’ per farci coraggio, ogni crisi produce insieme a tanti guai una serie di opportunità, perché costringe a rivedere le priorità e a riorganizzarsi.

Un’opportunità da cogliere potrebbe e dovrebbe essere quella di un epocale riequilibrio delle dimensione dei governi locali, non tanto o non solo a fini di risparmio, ma per minimizzare i costi connessi al loro funzionamento e per massimizzare le risorse effettivamente investite nei servizi alla popolazione e alle imprese, come pure per accrescere l’efficacia dell’agire pubblico, risultato di cui il paese ha estremamente bisogno.

Certo, gli enti locali non esistono solo per garantire l’offerta dei servizi pubblici, ma anche per svolgere quel compito rendendone partecipi e protagonisti cittadini e destinatari in genere, che condividono l’appartenenza alla comunità. Se non che, non c’è bisogno di grande ingegno per comprendere due evidenze: a) che le trasformazioni economico, sociali ed anche culturali non possono che “rimodellare” le identità locali di pari passo con l’evoluzione dei luoghi della frequentazione quotidiana; b) che al di sotto di una certa dimensione è semplicemente impossibile che l’ente locale, inteso come organizzazione di una comunità insediata su un certo territorio, fornisca servizi di qualità e quantità congrui rispetto ai bisogni e alle aspettative presenti e futuri.

Il lungo dibattito sulla riorganizzazione dell’assetto istituzionale

Il tema dell’adeguatezza degli enti, per dimensione demografica e dotazione di risorse umane e finanziarie, alle funzioni di loro competenza non è certamente nuovo. Limitandosi al contesto italiano e solo all’ultimo cinquantennio, il problema dell’eccesso di frammentazione e di sovrapposizione delle funzioni è emerso con forza in almeno tre fasi: a) in occasione dell’istituzione delle regioni a statuto ordinario negli anni ’70, che costituendo un ulteriore livello di governo intermedio hanno posto, ma non risolto, la questione del superamento del livello provinciale e della razionalizzazione della maglia comunale; b) in corrispondenza del decentramento delle funzioni amministrative promosso con la L.142/90 e le Leggi Bassanini, che non a caso avevano previsto forme di riduzione della parcellizzazione dei comuni poi mai realizzate; c) in relazione, infine, ai provvedimenti per la realizzazione di un sistema federale, a partire dalla riforma costituzionale del 2001 per arrivare alla L.42/2009 e ai relativi decreti attuativi, atti in cui il principio guida della sussidiarietà (prossimità della funzione pubblica al cittadino) è significativamente collegato a quelli della differenziazione (funzioni diverse per enti diversi) e dell’adeguatezza (enti in grado di svolgere le funzioni assegnate).

Sull’ultimo percorso è piombata la crisi, che in parte ha modificato gli obiettivi, ma soprattutto ha imposto tempi brevi e nuove modalità di realizzazione delle riforme. E’ innegabile che la crisi e l’impellente necessità di riduzione del debito pubblico abbiano rilanciato il ruolo del governo nazionale e di conseguenza ridotto lo “spazio di operatività del principio di autonomia” (Piperata, 2012) e lo spazio per le riforme di sistema, ma non è detto che ciò sia necessariamente un male per un paese che tende a rimandare sempre gli interventi di ammodernamento di cui ha bisogno. E’ evidenza empirica non confutabile, infatti, che l’eccesso di frammentazione amministrativa rispetto ai fenomeni socio-economici da governare impone costi evitabili alla collettività, che si riflettono in riduzione dei livelli di benessere presenti e futuri.


I costi della frammentazione del governo locale

Una recente ricerca condotta sulla Toscana (Iommi, 2013), regione che non è tra quelle con i più alti livelli di frammentazione (i comuni con popolazione fino a 10mila abitanti rappresentano il 70% del totale contro l’85% a livello nazionale e percentuali intorno al 90% in Piemonte e Lombardia) ha concettualizzato due tipi di costi evitabili, definiti costi espliciti e impliciti. I primi sono dati sostanzialmente dai costi di funzionamento degli enti nella loro parte di amministrazione generale e di rappresentanza politica e sono quantificabili in modo relativamente semplice. I secondi, più difficili da misurare, ma sicuramente più importanti per il futuro delle collettività locali rappresentano invece una sorta di costo opportunità della polverizzazione istituzionale, cioè quelle occasioni di miglioramento dei servizi pubblici locali e di sviluppo socio-economico cui si rinuncia opponendosi al riadeguamento dell’assetto istituzionale alle esigenze delle comunità locali moderne. Per i primi, i costi espliciti di funzionamento, le stime fatte sulla Toscana indicano un risparmio potenziale pari al 20% di quanto speso nel 2010 per tale funzione. Se poi la crescita dimensionale dei comuni dovesse rendere definitivamente superfluo il ruolo delle province come è ragionevole ipotizzare, il risparmio potrebbe estendersi a comprendere la spesa di funzionamento anche di queste ultime. Facendo un calcolo molto grossolano a scala nazionale si potrebbero risparmiare complessivamente circa 5,7 miliardi (di cui 3,3 dai costi fissi di funzionamento dei comuni e 2,4 da quelli delle province), corrispondenti a circa 100 euro per cittadino all’anno. Per i secondi, i costi impliciti della frammentazione, il lavoro citato non fornisce una stima, ma è palese in questo caso che mantenere gli enti locali artificialmente piccoli rispetto ai territori frequentati quotidianamente dalla popolazione impone la rinuncia ad un ruolo decisionale più autorevole e alla possibilità di innovare, per la semplice ragione che 10 comuni da 50mila abitanti, pur non avendo alcun problema di piccola dimensione, non fanno una città da 500mila abitanti in termini di capacità di attrazione di investimenti pubblici e privati. E’ evidente che questa seconda componente di costi riguarda in particolar modo le aree metropolitane e le principali aree urbane e il loro ruolo di motore di sviluppo per le regioni di appartenenza.


Esiste un assetto istituzionale ideale?

Il tema rientra tipicamente nella sfera del diritto amministrativo e costituzionale, ma, come si è dimostrato, assume rilievo anche sotto il profilo dell’analisi economica, per il fatto che i governi locali sono “produttori” di servizi pubblici e le condizioni di tale processo di produzione sono influenzate dalle dimensioni dell’ente, ma anche per il fatto che da quantità e qualità dei servizi pubblici locali dipendono benessere delle famiglie, competitività delle imprese, attrazione di nuovi investimenti. In una fase di crescita della competizione territoriale e di riduzione delle risorse disponibili, come le istituzioni funzionano, ovvero, se e quanto riescono a rispondere ai bisogni diventa elemento cruciale da cui dipende anche la loro legittimazione, secondo un approccio basato sempre più su quella che è stata definita “logica performativa” (Lippi, 2009).

Quindi anche per le istituzioni occorre cercare un assetto che rispetti il più possibile i principi base della configurazione industriale ottimale, che vuol dire cercare di: a) portare l’attività minima (funzioni amministrative e di rappresentanza democratica) del livello di governo più basso (comune) a quella necessaria per lo sfruttamento di economie di scala e di dimensione (razionalmente sopra a 20mila abitanti); b) evitare la duplicazione di funzioni e strutture ai vari livelli istituzionali, così sfruttando economie di scopo e di complementarità, che vuol dire crescita dimensionale dei comuni, istituzione delle città metropolitane nelle aree altamente urbanizzate, eliminazione delle province e attribuzione alle regioni solo di funzioni di programmazione, legislazione e regolazione; c) sfruttare economie di specializzazione e di rete, tramite l’affidamento ad enti specializzati non elettivi i servizi a carattere prevalentemente industriale e di ampia dimensione territoriale dell’utenza (tipicamente servizio idrico, rifiuti e trasporto pubblico).

Nell’assetto ideale descritto, i “nuovi comuni” dovrebbero godere di grande autonomia di finanziamento, basato su tasse e contributi derivanti dai servizi alla persona, imposte autonome di natura prevalentemente patrimoniale, imposte di scopo temporanee, legate esplicitamente alla realizzazione di specifici investimenti. In un assetto ottimale, dunque, i “nuovi comuni” avrebbero la forza contrattuale e gli argomenti di legittimità per opporsi ai continui cambiamenti di strategia del governo centrale sulla struttura di una delle fonti principali di finanziamento dei governi locali (cioè l’IMU).

Quindi, se vogliamo concludere con un messaggio: i governi locali, proprio perché più a diretto contatto con i bisogni dei cittadini, diano prova di realismo e di senso di responsabilità, si facciano primi promotori di una riorganizzazione centrata sul principio dell’adeguatezza per reclamare il rispetto della loro autonomia decisionale, che vuol dire scegliere quali servizi erogare, con quale modello organizzativo e con quali risorse, tutte cose che in gran parte hanno già perso e rischiano di perdere ancora di più in futuro, fossilizzandosi sulla difesa dei confini (cfr. Tubertini, 2012). Se invece preferiscono continuare a nascondersi dietro all’argomento del rispetto delle identità locali tradizionali (nel frattempo cambiate), si sentano perlomeno obbligati a render conto ai loro cittadini dei costi che la difesa dell’esistente impone: 100 euro pro capite all’anno per il funzionamento degli enti e la rinuncia allo sviluppo futuro.

Carlo Fusaro (Università di Firenze), Alessandro Petretto (Università di Firenze), Sabrina Iommi (IRPET, Firenze)

Bibliografia

Iommi S. (2013), Dimensioni dei governi locali, offerta di servizi pubblici e benessere dei cittadini, IRPET, Firenze, http://www.irpet.it

Lippi A. (2009), Rendimento, accountability e legittimazione delle decisioni pubbliche nelle istituzioni democratiche, in Quaderni dell’associazione di studi, n.18, http://www.centrostudiparlamentari.it

Piperata G. (2012), I poteri locali: da sistema autonomo a modello razionale e sostenibile?, in Istituzioni del Federalismo, n.3, pp.503-522, http://autonomie.regione.emilia-romagna.it

Tubertini C. (2012), La razionalizzazione del sistema locale in Italia: verso quale modello?, in Istituzioni del Federalismo, n.3, pp.695-725, http://autonomie.regione.emilia-romagna.it

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2 Comments

  • stefano aragona

    Ma il modello non è troppo simile a quello USA dove domina l’economia e c’è una concorrenza tra Comuni (Towns e Cities)? Quando il ciclo economico termina vengono abbandonati. Inoltre mi sembra che se tutto il guadagno economico della semplificazione è di 100 euro…
    Invece concordo sulla riorganizzazione, accorpamenti, dei Comuni però utilizzando come criterio di valutazione un approccio “Multicriteria” che soprattutto ri-internalizzi costi che sono stati scaricati sui cittadini con la logica delle privatizzazioni di molti servizi pubblici locali.
    Ovviamente stiamo parlando di modificazioni strutturali che richiedono anni e che però devono ri-avere la politica che guida l’economia e non viceversa. Già nel 1993 ne parlavo ne “La Città virtuale. Innovazione tecnologica e trasformazioni urbane” dopo lunghi periodi di studio in USA (Boston) e Paesi Bassi (DElft).
    A presto
    Stefano Aragona
    Ing., PhD. , Ricercatore in Urbanistica
    Master of Sciences in Economy Policy & Planning
    Dipartimento Patrimonio, Architettura, Urbanistica
    Università Mediterranea di Reggio Calabria
    Via salita Melissari, Feo di Vito
    89124 Reggio Calabria – Italia
    +39 0965.809521
    320.2347796

  • Paolo Landoni

    L’apprendistato stregonesco in materia di riforme istituzionali e riorganizzazione dei livelli di governo del territorio ha raggiunto livelli stucchevoli. Spiace riscontrare il profluvio di ipotesi e teorie che ripropongono modelli di organizzazione dove la parola adeguatezza viene citata per essere subito dimenticata, dopo poche righe.
    Il problema del Paese sono le Province, dunque qualsiasi occasione é buona per rincorrere il populismo e assurgere a epigoni, stavolta accademici, di Stella, Rizzo & co.
    Che importa se le Regioni hanno ampiamente dimostrato di essere la fonte dell’esplosione della spesa pubblica (la Sanità non ha insegnato proprio nulla in questi anni?); che importa se la fusione di due comunelli di cinquecento abitanti ciascuno é fonte di mal pancia che manco l’escherichia coli!
    L’incipit é sempre quello, portare l’amministrazione vicino al cittadino, tutto il potere ai Sindaci (saranno dei piccoli sultani, evviva), sullo sfondo un po’ di “programmazione” regionale e una bella Italia di Comuni-Città Stato sarà fatta. I temi sovracomunali? Per carità, roba superata! Con l’intercomunalità si risolve tutto, come diceva una vecchia pubblicità, quella dell’Euchessina se non ricordo male. In effetti si risolveranno benissimo i conflitti in tema di ambiente e territorio (mi riferisco soprattutto a temi quali gli strumenti urbanistici, la gestione delle aree protette, delle risorse idriche): spazzate via le Province, controllori e controllati diverranno un unico soggetto, i Comuni appunto, ben felici di rispondere solo a sé stessi.
    E poi, le fantasmatiche Città Metropolitane, vera panacea, soprattutto (o solo) per chi non ha mai avuto ben chiara la differenza tra città metropolitana e “area metropolitana” (cfr. http://www.eyesreg.it/2013/listituzione-delle-citta-metropolitane-lennesima-occasione-mancata-per-rifondare-le-politiche-di-sviluppo-territoriale/). Un’Italia di serie A, con le CM, una di serie B senza più nessun governo d’area vasta degno di questo nome, complimenti.
    Manca solo il grido “Europa vult!” e la Crociata é pronta. Peccato che quella stessa Europa ben conosca la differenziazione dei livelli di governo del territorio, a partire dall’austera Germania, che i suoi Landkreise, assai più numerosi e piccoli delle nostre Province, se li tiene ben stretti. Chissà, forse a Bruxelles non si sono accorti che esistono le province in Germania!
    Comunque, visto che ormai a sparare son bravi tutti, sparo anch’io: aboliamo le Regioni. Sono anche in ottima compagnia nel sostenerlo: http://www.lexitalia.it/p/13/ieva_regioni.htm

 
 

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