Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Le città del presente, le città del futuro: rendita e ricapitalizzazione

Print Friendly, PDF & Email

di: Roberto Camagni

EyesReg, Vol.2, N.2 – Marzo 2012.

Negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo. Il tema è stato evidenziato in modo esemplare da Antonio Calafati (2009) che ha messo l’accento principalmente sulla incapacità delle amministrazioni locali di tassare adeguatamente le rendite fondiarie e immobiliari al fine di finanziare nuove funzioni urbane.

La sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di disequilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali.

Proprio quando i processi di internazionalizzazione e di globalizzazione si manifestavano in modo potente a partire dalla metà degli anni ’80, ponendo nuove domande e nuove condizioni alle amministrazioni territoriali – a partire dall’annuncio del grande Mercato Unico Europeo del 1985, attraverso la liberalizzazione dei movimenti di capitale e fino alla realizzazione di grandi aree monetarie e di libero scambio – ; e quando le città europee si attrezzavano non solo per ospitare le funzioni messe in moto da questi processi ma per realizzare nuova efficienza, nuove accessibilità internazionali e nuovi elementi di qualità urbana, puntuale e diffusa (Camagni, 1992), le nostre città – con alcune eccezioni – sembrano aver perduto il passo giusto. Pur in presenza di un decentramento di funzioni e di responsabilità amministrative e decisionali, sembra mancare nelle nostre città la capacità di costruire una visione e un progetto collettivo.

Nel periodo dello sviluppo – in particolare negli anni 1996-2006 – che ha prodotto rilevanti margini di profitto per gli operatori e abbondanti rendite fondiarie e immobiliari, si è perduta una occasione irripetibile per chiamare il privato a una contribuzione più rilevante alla costruzione della città, attraverso la fiscalità urbanistica e immobiliare. Oggi, in periodo di crisi, il settore si trova in una condizione precaria, con vasto invenduto e attività di nuova costruzione assai limitata. Tuttavia non affrontare il problema strutturale, quello di una fiscalità troppo timida sui plusvalori emergenti dalla trasformazione e dallo sviluppo della città, sarebbe un grave errore, anche in considerazione della limitata caduta dei valori immobiliari.

Occorre rilanciare il messaggio lanciato dall’INU nel 1995 e successivamente caduto in larga misura nell’oblio: finanziare lo sviluppo e la qualificazione della città pubblica attraverso una più equa ripartizione fra pubblico e privato dei plusvalori emergenti dalla trasformazione della città privata.

Le modalità con cui, a livello internazionale, i privati vengono chiamati a contribuire ai costi della rigenerazione e dello sviluppo della città, nonché a condividere in parte col settore pubblico i plusvalori generati dalle trasformazioni urbane, sono assai varie.

Troviamo infatti (Camagni, 1999; Curti, 2006; Marmolejo, 2010):

  1. la normale attribuzione al privato dei costi di infrastrutturazione (i nostri oneri di urbanizzazione, la taxe locale d’équipement francese, le cargas de urbanizaciòn spagnole,  ecc.) e il conferimento di una parte delle aree trasformate per ospitare infrastrutture, verde e servizi (le nostre aree a standard, presenti ovunque),
  2. il pagamento di un contributo per la concessione del diritto a costruire (il development permit inglese,
  3. il pagamento di una tassa per impatti ambientali e pubblici dell’edificazione (i nostri contributi sui costi di costruzione e gli impact fees americani),
  4. l’obbligo attribuito all’operatore privato di realizzare edilizia sociale, assumendosi totalmente o parzialmente l’onere relativo: una prassi crescente nel Regno Unito, nei paesi scandinavi e in Germania,
  5. il contributo alla realizzazione di infrastrutture non pertinenti all’ambito di trasformazione: una prassi molto seguita nei planning agreements inglesi,
  6. il recupero da parte pubblica di una parte delle plusvalenze della trasformazione urbanistica privata: è tipicamente il caso spagnolo.

Una comparazione precisa della dimensione complessiva degli oneri urbanistici nei diversi paesi è comunque operazione complessa. Da analisi diverse effettuate non solo da chi scrive, si può constatare che la tassazione diretta immobiliare per oneri di urbanizzazione nel nostro paese è di gran lunga inferiore a quella di molti paesi avanzati. I valori massimi praticati in Italia sono forse adeguati a coprire i puri costi diretti della predisposizione di infrastrutture urbane minimali; non lo sono invece i valori medi o i valori quasi irrilevanti che ancora è dato scoprire in talune realtà comunali. Ma soprattutto l’imposizione urbanistica appare inadeguata a coprire nuovi (ma anche vecchi) oneri e impegni dei comuni: non solo per la costruzione ma anche la manutenzione delle infrastrutture urbane; per ridurre gli impatti ambientali dei nuovi insediamenti; per le nuove esigenze di tutela delle fasce deboli della popolazione, e segnatamente per l’edilizia sociale.

Un confronto diretto realizzato tre anni or sono fra gli esiti di procedure negoziate realizzate a Milano e a Monaco di Baviera non lascia dubbi al riguardo. Era emerso infatti un sostanziale sottodimensionamento comparativo degli oneri nel caso milanese, che, in termini di incidenza sul valore del costruito, rappresentavano, nel caso di edilizia residenziale, da un terzo a un quarto di quanto ottenuto dall’amministrazione pubblica a Monaco di Baviera (Camagni, 2008).

In Italia, siamo dunque ben lontani da una “equa” ripartizione fra pubblico e privato dei plusvalori emergenti dalle trasformazioni urbane; una ripartizione che premia il privato, la rendita fondiaria, i consumi e una finanza di origine immobiliare a scapito dell’investimento pubblico sulla città.

Si tratta non solo di una condizione di iniquità, ma anche di larga inefficienza di lungo periodo. Si rinuncia nei fatti alla competitività, all’attrattività, alla sostenibilità e alla qualità della vita nelle nostre città, in una fase di globalizzazione in cui le decisioni di investimento delle imprese vengono effettuate su uno scacchiere internazionale e dunque in cui la “lealtà territoriale” delle imprese italiane appare largamente ridotta o comunque “condizionata” (Calafati, 2009): condizionata dall’efficienza dei contesti territoriali, dalla efficacia delle regole che governano le relazioni economiche e sociali, dalla lungimiranza delle amministrazioni pubbliche, locali e nazionali.

Quello della rendita fondiaria è un tema che sembra scomparso da tempo dall’agenda politica del nostro paese; occorre invece subito ripensare a un’equa ed efficiente tassazione delle rendite (non dei profitti imprenditoriali dei developer) come condizione per riavviare il circuito virtuoso della crescita, urbana e complessiva, del paese.

Al proposito occorre contestare una obiezione che viene talvolta proposta: che un aumento dell’imposizione fiscale possa scaricarsi su un aumento dei prezzi degli alloggi, con conseguente danno per i cittadini e in particolare di quelli meno abbienti. Qui la teoria economica urbana è chiara: una traslazione sui prezzi avviene solo nel caso delle localizzazioni marginali del comune marginale; in tutti gli altri casi è la maggiore domanda che determina il prezzo, in presenza di una curva di offerta relativamente rigida.

Da quanto ora detto si comprende come l’obiettivo di un’equa ed efficiente ripartizione dei plusvalori della trasformazione della città non sia tema tecnico: riguarda solo in parte le modalità con cui si svolge istituzionalmente il rapporto fra pubblico e privato nei processi di decisione urbanistica, siano esse regolative o negoziali. Dal punto di vista dell’equità e dell’efficienza, esistono buone e cattive negoziazioni, come esistevano in precedenza buoni e cattivi piani “regolatori”.

Un simile ragionamento si applica a un’altra tematica, simile e collegata: quella della perequazione urbanistica, spesso intesa come strumento sempre virtuoso, efficace e benefico.

Nell’evoluzione recente di questo strumento infatti, da una utilizzazione su comparti urbani limitati, contigui o anche lontani ma ben definiti ex-ante, a una utilizzazione generalizzata attraverso indici unici, diritti edificatori commerciabili liberamente e utilizzabili tendenzialmente su tutta la città, emergono possibili contraddizioni e rischi di esiti iniqui. Tali contraddizioni, se non adeguatamente comprese e gestite con le opportune cautele e condizionalità, possono mutare il segno dei benefici attesi dallo strumento perequativo, allontanandolo dalle originarie finalizzazioni.

Questa possibile eterogenesi dei fini è a mio avviso riscontrabile nel dispositivo della perequazione urbanistica previsto dal Piano di Governo del Territorio del Comune di Milano, approvato dalla Giunta Moratti ma non entrato in vigore ed anzi contestato dalla nuova Giunta insediatasi nel giugno 2011. Con la possibilità che diritti edificatori maturati su terreni periferici possano essere utilizzati senza coefficienti correttivi su terreni centrali si realizza una trattamento chiaramente iniquo, favorevole a un nuovo tipo di speculazione (si veda al proposito il mio intervento sul n. 1/2011 di EyesReg).

Gli obiettivi di equità e di efficacia dell’azione urbanistica vanno verificati nella pratica, non nella presunta generica bontà degli strumenti, attraverso innovazioni sostanziali nella trasparenza amministrativa e nella accountability delle amministrazioni nei confronti della collettività.

Roberto Camagni, Politecnico di Milano

Bibliografia

Camagni R. (1992), Le grandi città italiane e la competizione a scala europea. In: Costa P., Toniolo M., Città metropolitane e sviluppo regionale. Milano: Franco Angeli.

Camagni R. (1999), Il finanziamento della città pubblica: la cattura dei plusvalori fondiari e il modello perequativo. In: Curti F. (a cura di), Urbanistica e fiscalità locale. Ravenna: Maggioli.

Camagni R. (2008), Il finanziamento della città pubblica. In: Baioni M., La costruzione della città pubblica. Firenze: Alinea.

Camagni R. (2011), L’uso improprio della perequazione urbanistica: il caso del PGT di Milano, EyesReg – Giornale di Scienze Regionali, Vol.1, N. 1 – Maggio 2011.

Curti F. (2006), Le condizioni di sostenibilità del welfare urbano. In: Curti F. (a cura di), Lo scambio leale. Roma: Officina edizioni.

Marmolejo C. (2010), ¿Quién paga las infraestructuras y equipamientos pùblicos en reestructuraciòn urbana en Inglaterra, los Paìses Bajos y la Comunidad Autònoma Valenciana?, Arquitectura, Ciudad y Entorno. Barcelona UPC.

Condividi questo contenuto
 
 
 
 
 
 
 

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *