Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Il riordino delle province italiane. Ovvero la riorganizzazione territoriale dello Stato

Print Friendly, PDF & Email

di: Ferdinando Semboloni

EyesReg, Vol.2, N.6 – Novembre 2012.

Il riordino delle province è una operazione che, se andrà in porto, condizionerà per i decenni futuri l’organizzazione territoriale dello Stato, con le ovvie conseguenze sul sistema urbano. Si tratta di una delle classiche decisioni pubbliche che si materializzano, dopo anni di dibattiti inconcludenti, quando il problema viene messo nell’agenda politica, al problema si associa una soluzione, e la decisione viene presa sotto l’urgenza che nel nostro caso è la necessità di eliminare le spese superflue ed improduttive della pubblica amministrazione, la cosiddetta spending review.

In sintesi, in riordino consiste nella soppressione di circa metà delle attuali province e la istituzione di dieci città metropolitane. Ma il vero obiettivo è la riorganizzazione degli uffici periferici dello Stato conseguenti alla delimitazione provinciale, come prefettura, questura, motorizzazione civile, sedi Inps, Inail, etc. La portata del provvedimento è quindi enorme, e coinvolge aspetti di organizzazione, se non di pianificazione, territoriale che riguardano da vicino le scienze regionali.

Se occorre rendere merito al Governo per aver affrontato in un modo forse discutibile ma almeno concreto e rapido il problema, a differenza dei continui dibattiti e dietrofront cui abbiamo assistito sinora, questo non può limitare le eventuali critiche. I momenti in cui si articola l’operazione sono: (1) accorpare per ridurre le spese, (2) fissare dei criteri molto generali di accorpamento, e (3) lasciare alle istanze locali la proposta su come applicare questi criteri, salvo il fatto che la decisione finale spetta al Parlamento.

L’accorpamento

Che l’accorpamento sia la strada migliore per la gestione territoriale dei servizi è tutto da dimostrare, dato che come sappiamo la decisione è sottosta a due tendenze opposte: da una parte la centralizzazione, dall’altra la vicinanza alla popolazione, aspetto che può essere visto sia nella sua caratteristica funzionale, come erogazione di un servizio, sia nel suo aspetto politico, cioè come possibilità di governance del territorio.

L’accorpamento è il processo politicamente più semplice: una volta stabilita l’estensione territoriale ne consegue una serie di effetti che portano alla riorganizzazione di tutte le altre funzioni statali sul territorio. Attualmente le province sono 110, con una media di circa 551mila abitanti per provincia. Alla fine del processo, col dimezzamento del numero delle province, si avrà una popolazione provinciale media di poco più di un milione di abitanti.

Probabilmente l’errore consiste nell’includere in un solo provvedimento l’obiettivo di riformare tutto l’apparato statale, senza tener conto delle realtà territoriali. Da un lato gli uffici statali avrebbero potuto essere riorganizzati separatamente, e dall’altro l’accorpamento avrebbe dovuto tener conto del territorio e delle sue gerarchie urbane, nel senso di far corrispondere una funzione al livello demografico e alla centralità territoriale del centro urbano.

I criteri

Stabilire i criteri di zonizzazione significa fissare una dimensione ottima sia per la gestione democratica del territorio che per l’erogazione dei servizi. Saltando a pie’ pari tutti gli studi sui sistemi locali, centralità urbane etc., il Governo, seguendo l’esempio dei precedenti, ha fissato i seguenti criteri: popolazione minima pari a 350mila abitanti, superficie territoriale minima pari a 2.500 km quadrati (a parte le città metropolitane, con le quali nessuna altra provincia poteva accorparsi, salvo variazioni parziali e successive di questa norma) e capoluogo nella città più popolosa, a meno di accordi locali diversi. L’applicazione dei criteri porta immediatamente alla cancellazione di 64 province, costrette quindi ad accorparsi, di cui 50 in regioni a statuto ordinario e 14 in regioni a statuto speciale.

Il criterio della popolazione minima risponde alla esigenza di massimizzare le economie di scala: al di sotto di una determinata soglia non è conveniente fornire un servizio, a causa dei costi fissi in rapporto al volume della domanda. Il secondo, quello della superficie territoriale minima, sembra rispondere ad una esigenza di spazializzazione del servizio. In altre parole si stabilisce una distanza minima tra un presidio e l’altro impedendo che in zone ad alta densità siano presenti più province. Non vengono però stabilite una popolazione massima ed una superficie massima. La mancanza di questi requisiti che ovviamente è funzionale all’obiettivo di accorpare il più possibile, finisce per generare dei territori con popolazione e superficie grandi a piacere. D’altra parte mantenendo i criteri così stabiliti, si finisce per limitare in modo molto rigido le possibili soluzioni. In particolare le province poste in zone a bassa densità si trovano nella necessità di accorparsi, generando province di grande estensione.

Una semplice correzione al criterio avrebbe potuto consistere nello stabilire un rapporto tra popolazione e superficie in modo da rendere la frontiera delle soluzioni meno rigida: in sostanza cancellando le province per le quali il prodotto (Popolazione) x (Superficie) sia inferiore al prodotto delle due soglie stabilite dal decreto governativo, cioè 350.000 x 2.500 (una sorta di funzione di utilità Cobb-Douglas). Un metodo un po’ più elastico che modifica la frontiera delle soluzioni possibili.

Figura 1. Le attuali province secondo la loro popolazione e superficie in coordinate logaritmiche (quadrato nero). Il cerchio rosso rappresenta le province destinate a divenire città metropolitane. Le province che superano i criteri governativi stanno nel quadrante B. La linea verde rappresenta la funzione (Popolazione) x (Superficie) = 350.000×2.500.

Come si vede dalla figura 1, mentre i rigidi criteri governativi, applicati a tutte le attuali province, avrebbero cancellato le province di Milano, Napoli, Genova e Venezia, la funzione proposta le mantiene.

Le proposte

Come si è detto, alle regioni viene richiesto di formulare proposte sulla base dei criteri sopra definiti. E’ questo il punto che crea i maggiori attriti, ma nello stesso tempo è un passaggio obbligato atteso che la Costituzione italiana prevede che la modifica delle province avvenga esclusivamente per impulso da parte dei comuni, ratificato poi dal Parlamento.

Ed è qui che si è scatenata la bagarre che dura da questa estate. Sembrerebbe che da parte governativa non vi sia stata nessuna ipotesi su quello che i criteri avrebbero prodotto sul territorio. Ad esempio, nel Lazio la soluzione era una sola, col risultato che la Regione si è rifiutata da dare indicazioni di alcun genere. In Toscana si sarebbe originata la provincia comprendente Prato, Pistoia, Lucca e Massa Carrara, con capoluogo Prato, cosicché dalla Regione sono venute fuori ben due proposte con la richiesta di varie deroghe. Il Governo ne ha formulata una terza che modifica i criteri che lo stesso Governo si era dato e non accetta nessuna di quelle formulate dalla Regione. Si potrebbe continuare con gli esempi. Ma era ovvio aspettarsi che in assenza di qualsiasi quadro generale si sarebbe scatenata la corsa alla risorsa limitata. Il risultato è quello della rissa per mantenere la provincia, o, una volta accorpati, per mantenere il capoluogo, dati i vantaggi economici in termini di posti di lavoro che questo comporta.

Questo metodo è comunque un ibrido rispetto alla Costituzione e da qui scaturiscono i ricorsi presentati dalle Regioni alla Corte Costituzionale, poiché in base all’art. 133, come abbiamo ricordato, le procedure previste per il mutamento delle delimitazioni delle province sono altri. Ricorsi che potrebbero (ma probabilmente non avverrà) affossare tutto il procedimento.

Il risultato dell’operazione

Allo stato attuale siamo arrivati alla prima fase del processo, nel quale il Governo, sulla base delle proposte regionali, ha stabilito un primo riordino dei territori provinciali e delle città metropolitane relativamente alle regioni a statuto ordinario.

Se la eliminazione di province piccole è una operazione positiva, va anche detto che risulta difficile comprendere come la provincia, ancorché con competenze diminuite, potrà amministrare territori vasti che sfiorano i 10mila km quadrati, come nel caso di Potenza e Matera. Gli accorpamenti sono per la maggior parte di due province (21), pochi ne hanno tre (6 casi) e solo uno di quattro. La forma che tali delimitazioni (figura 2) assumono talvolta è lontana da quella ottimale che tendenzialmente dovrebbe avvicinarsi all’esagono christalleriano. Delimitazioni a forma allungata, come nel caso di Verona e Rovigo, o di Lodi, Cremona e Mantova, rendono un territorio disomogeneo da controllare, e alla lunga difficile da mantenere, tanto che alla fine in questi casi è probabile che si opti per una divisione più o meno equa degli uffici statali: la Guardia di finanza a me, l’Agenzia del territorio a te etc. Con una confusione facilmente immaginabile.

Figura 2. Le province per popolazione residente prima e dopo il riordino

Ma per valutare appieno il risultato del riordino occorre considerare la variazione del numero medio di province per abitante. A questo scopo è utile l’indice di provincializzazione, che esprime la quantità di province per un milione di abitanti. Tale indice ha attualmente una media nazionale pari a 1,81, che scende a 1,17 dopo il decreto sul riordino. Gli scostamenti rispetto alla media a livello regionale indicano le regioni con maggiore o minore “densità provinciale.” Nella figura 3 si evidenziano col verde le regioni per le quali lo scostamento è negativo, quindi con una densità inferiore alla media nazionale, e con l’arancione e poi il rosso, quelle nelle quali lo scostamento è positivo e quindi con una maggiore densità provinciale. Come si vede dal confronto dei due stati si è operato uno sfoltimento specialmente al centro, mentre permangono addensamenti nelle regioni a statuto speciale e nelle regioni di piccola taglia.

Figura 3. Scostamento rispetto alla media dell’indice di provincializzazione.

L’accorpamento produce ovviamente maggiori costi di trasporto. Per mettere in evidenza questo aspetto è utile considerare la distanza in chilometri tra i centroidi delle province accorpate supponendo, cosa non sempre vera, che il capoluogo venga posto nella città più popolosa. Inoltre, per valutare il disagio complessivo si è moltiplicata questa distanza per gli abitanti (divisi per mille) in modo da ottenere un indice che rappresenti la distanza totale percorsa dagli abitanti per usufruire dei servizi (figura 4).

Figura 4. La distanza delle province accorpate e la distanza percorsa dalla popolazione residente.

Come ovvio sono le forme allungate del territorio provinciale come nel caso di Livorno, Pisa, Lucca e Massa-Carrara, che generano i maggiori disagi, oppure gli accorpamenti in situazioni di bassa densità, come nel caso di Teramo e L’Aquila.

Conclusione

Il riordino delle province risponde a due logiche contrapposte: lo Stato che vede le province come un ambito del suo decentramento amministrativo e quindi valuta i costi derivanti dalla eccessiva dispersione territoriale dei suoi presidi, e, dall’altra, le comunità territoriali che vedono nella provincia una sorta di conferma di una identità territoriale. Da qui le tensioni in atto.

Le decisioni politiche prese sotto l’urgenza ci dimostrano quanto l’ottimo sia lontano dalla realtà anche se entrare dentro i meccanismi della decisione e sottoporla a critica è sempre utile.

Ferdinando Semboloni, Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio – Università di Firenze

Condividi questo contenuto
 
 
 
 
 
 

1 Comment

  • klement

    Ridiscutere i confini è solo una guerra di tutti contro tutti.
    Eliminare le province elettive equivale a sopprimere i consigli comunali per tornare al più economico Podestà fascista. Trasformarle in coordinamento dei Sindaci è il male minore, in quanto sono comunque eletti dal popolo e già stipendiati.
    Dando al Presidente della Provincia compiti di Ufficiale del Governo come il Sindaco, si potrà far bastare una sola Prefettura per regione

 
 

Rispondi a klement Cancel

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *