Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Conoscenza e decisione in un mondo complesso

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di: Ferdinando Semboloni

EyesReg, Vol.2, N. 1 – Gennaio 2012.

In un contesto sociale pervaso da turbolenze la pianificazione è ancora un strumento utile per governare i processi e indirizzarli verso obiettivi di utilità collettiva? Ed inoltre: quale tipo di conoscenza è indicato per conseguire lo scopo? Queste le domande alle quali si tenta di dare una risposta in questo breve intervento.

Il piano nella sua formulazione classica che emerge da una matrice aziendale (Friedmann, 1987), consiste in un dispositivo lineare (McLoughlin, 1973): stabilito l’obiettivo da conseguire, attraverso la valutazione delle alternative, si tratta di mobilitare le risorse necessarie, in modo da realizzare il risultato finale desiderato. Di fronte alla linearità del piano si contrappongono le teorie sulla complessità, emergenza, non-linearità ed auto-organizzazione dei fenomeni sociali (figura 1). Un’apparente logica conclusione è la inutilità e impossibilità di applicare il metodo della pianificazione al governo di un tale sistema. Le critiche di Hayeck vanno in questa direzione: l’ordine nascosto è quello che regola i fenomeni economici e sociali, e come la evoluzione darwiniana, rappresenta una forza alla quale è difficile opporsi.


Figura 1. La simulazione della morfologia urbana basata su semplici regole di interazione. A cura dell’autore.

Ma la complessità e quindi l’emergenza è una caratteristica intrinseca dei sistemi sociali, o essa deriva anche dalla possibilità che la società possa costruire una descrizione di se stessa attraverso l’auto-osservazione (Fioretti, 1998)? In questo secondo senso la complessità nasce dal fatto che tale descrizione non potrà mai essere conclusa dato che l’atto stesso di stabilire la descrizione richiederebbe una ulteriore descrizione etc. ad infinitum. La possibilità che il sistema sociale possa stabilire l’osservazione di se stesso, ovvero il suo carattere autoreferenziale e riflessivo, costituisce la sua vera fonte di complessità, da cui trae origine il paradosso secondo il quale la possibilità di osservazione, almeno in ambito sociale, porta alla impossibilità della stessa quando avanzi la pretesa di voler conoscere l’intero sistema, e dunque anche l’atto del conoscere se stesso.

L’esistenza di tali paradossi che nell’ambito assiomatico portano alla crisi del sistema (vedi Gödel, teorema dell’incompletezza), sono invece l’essenza della realtà sociale, in cui le condizioni che rendono possibile un evento, sono anche quelle che, in un senso lato, ne stabiliscono l’impossibilità. E’ proprio da questa tensione verso l’impossibile conoscenza totale del sistema, da parte di se stesso, che deriva il tentativo di orientarlo. Ciò avviene, specie nei momenti di transizione in cui il sistema si trova nella necessità di scegliere una tra varie possibilità, modificando l’orizzonte temporale, spostando cioè la conoscenza verso il futuro. Il che significa previsione creativa, generatrice di una vision verso la quale tendere. Si stabilisce una differenza tra l’esistente e ciò che viene previsto o desiderato (Luhmann, 1997), creando immagini del futuro e definendo le strategie per raggiungerle.

Ma come abbiamo detto sopra, sono proprio i paradossi che rendono possibile l’esistenza del sistema sociale. Se risulta difficile intervenire su di un sistema che si auto-organizza—Luhmann, (1982) sostiene che la società in quanto sistema evolutivo non è pianificabile—, è anche vero che è proprio questa condizione che ne permette l’orientamento. Questa complessità di secondo livello può difatti esistere in quanto esiste una capacità autonoma di reazione agli stimoli della politica ed una soggettività che è capace di sviluppare e rielaborare, anche verso direzioni non contemplate originariamente, le indicazioni del piano. Il quale non a caso utilizza la norma giuridica per attuarsi. Ma la politica, che si specializza in questo compito di indirizzo, finisce per essere un elemento del sistema che intende controllare tutto e quindi anche se stesso. Per evitare questo paradosso la politica stabilisce un confine netto tra essa e la società e per questo motivo utilizza un planning di tipo lineare, o che almeno compare come tale.

Il piano agisce comunque in un contesto sociale intessuto di conflitti. Le alleanze si formano quando l’interesse comune spinge gli attori a coalizzarsi formando gruppi in competizione fra di loro. Ciascun gruppo si coagula intorno a strategie emergenti (Mintzberg, Waters, 1985) che, minimizzando il rischio relativo al futuro con reiterate azioni di breve periodo, tendono a perseguire interessi, insediandosi in ambiti territoriali e adattandoli ai loro scopi. Per questo motivo tali gruppi cercano nell’ambiente politico una interazione positiva. Cosicché la politica tende a frantumarsi collegandosi stabilmente con i gruppi sociali più o meno organizzati in modo che la originaria distinzione tra politica e società tende a divenire distinzione tra le varie strategie emergenti nelle quali si organizzano gruppi sociali in diretto contatto con parti del sistema politico.

Su questa pentola bollente, sta un coperchio che è il piano come esso appare nella sua forma lineare, come imposizione rispetto ad un sistema sociale che viene normato e costretto a rispettare dei vincoli apparentemente esterni. In realtà così non è, come abbiamo cercato di evidenziare, data l’esistenza di strategie emergenti. Il piano, si sforza quindi di apparire come il comando assoluto, un po’ come il re del Petit Prince che dava solo comandi ragionevoli ai propri sudditi. Cosicché, non sempre, ma spesso, e soprattutto nelle sue parti più sostanziose nelle quali sono implicati attori di un certo peso, il piano diviene la “previsione” di ciò che… è già successo, e cioè la rappresentazione dell’accordo raggiunto, al pari della stipula di un contratto.

In società multi-attoriali, con fini molto divergenti, come nel caso della maggior parte dei sistemi sociali, la pianificazione viene assorbita all’interno del sistema sociale, poiché le strategie emergenti degli attori tendono ad allearsi con parti del settore pubblico. Spesso difatti queste strategie si basano proprio sull’uso di risorse pubbliche esistenti o da realizzare. In questi casi, il piano esiste perché con la sua normativa serve a regolare le transazioni nei diritti di proprietà. Ma non esiste sostanzialmente, come strumento adatto ad orientare lo sviluppo futuro, dato che il sistema sociale frammentato lo ha già assorbito all’interno della propria auto-organizzazione fatta di conflitto e collaborazione in un orizzonte temporale limitato.

Ci chiediamo, a questo punto, se sia possibile un diverso modo di governare il sistema sociale meglio integrato con il suo carattere complesso e auto-organizzante. Ciò può darsi, partendo proprio dal paradosso come elemento fondativo, in particolare dal rapporto tra pianificazione e previsione, abbandonando l’idea che possa esistere una previsione disgiunta dalla pianificazione e abbandonando l’idea stessa di previsione. Per fare ciò occorre considerare il ruolo della conoscenza, e i paradigmi conoscitivi che sono stati offerti dalla comunità scientifica.

La conoscenza richiesta per governare un sistema è necessariamente rivolta verso il futuro. L’incertezza relativa al futuro è alta nei sistemi complessi specie nei periodi di turbolenza cosicché i futuri possibili sono molti. Il mondo scientifico si è focalizzato prevalentemente sullo studio della complessità di primo ordine, supponendo, tutto sommato all’interno di un metodo lineare di pianificazione, che l’ampliamento delle conoscenze, la produzione di scenari alternativi, etc. fosse un valido aiuto ad un processo più razionale di presa delle decisioni. Non si tratta di mettere in discussione la necessità della conoscenza scientifica in quanto tale, che fa parte delle attività sociali auto-riflessive e che sicuramente possiede vantaggi soprattutto dal lato della valutazione della sensitività alla variazione dei parametri. Mi preme invece mettere in evidenza il suo uso nel processo di piano. Da questo punto di vista l’approccio scientifico e modellistico non ha trovato molta utilizzazione specie laddove si verifica il processo di cui si è parlato precedentemente, basato su strategie emergenti che cercano di minimizzare l’orizzonte temporale, dall’altro non ha proposto un reale ragionamento sul futuro, tanto più necessario in periodi di rapido cambiamento.

Qualsiasi previsione sociale è riflessiva (Portugali,2008) con funzione sia di auto-realizzarsi o di auto-negarsi—self-fulfilling o self-defeating— poiché contiene al suo interno una idea del futuro che si intende favorire in quanto desiderabile, una vision verso la quale implicitamente si tende. Perciò il futuro non può essere estrapolato dal passato e deve essere immaginato secondo condizioni completamente diverse (Ratcliffe, Krawczyk, 2011). In questo senso la teoria dei sistemi complessi auto-catalitici (Solomon, Shir, 2003) ci suggerisce di spostare l’attenzione dagli avvenimenti “medi” ai grandi eventi che escono fuori dai trend osservati e che si presentano in maniera inattesa (wild cards, black swan). Si tratta di eventi capaci di modificare in pochi istanti la vita di una comunità, come terremoti, e alluvioni, ma anche di evoluzioni più lente, come una variazione della domanda esterna, o della competitività di una economia locale che in un periodo più o meno breve possono determinare cambiamenti epocali. Questo introduce ad un secondo aspetto che sempre la teoria dei sistemi complessi suggerisce, cioè lo studio delle transizioni di fase. Nel sentiero evolutivo di un sistema si alternano fasi di equilibrio con momenti critici nel quali si passa da una fase a quella successiva. Questi punti di svolta sono anche quelli nei quali delle decisioni possono essere più facilmente prese. Per questo motivo, non è la previsione di un futuro che ci interessa quanto la esplorazione dei futuri possibili allo scopo di delimitare la variabilità della incertezza e quindi del rischio. Nella costruzione di scenari che abbiano una loro coerenza interna dovrebbe essere ritrovato il ruolo del modello che studiando leggi di funzionamento comunque valide, dovrebbe aiutare a costruire immagini del futuro congruenti, anche con parametri sostanzialmente mutati.

Le decisioni volte a orientare il sistema dovranno utilizzare quegli elementi che più sembrano contrastare con una idea di piano: la complessità e l’auto-organizzazione del sistema, e l’eterogeneità degli interessi in gioco. Sicuramente l’auto-orientamento del sistema è un elemento costitutivo dei sistemi sociali, quindi lasciare il meccanismo allo sviluppo “spontaneo” non fa parte dello spontaneo funzionamento del sistema sociale il quale è capace di auto-riflessione ed auto-controllo. Si tratta di due approcci: top-down e bottom-up. Nel primo caso la realizzazione di una visione dovrebbe passare attraverso una consapevolezza del carattere complesso ed auto-organizzante della società. L’approccio più promettente sembra una sorta di accompagnamento ed orientamento dei processi evolutivi della società. Cosicché le decisioni provenienti dall’alto orientano il sistema utilizzando le sue capacità di auto-organizzazione (Semboloni, 2005), come nello Swarm Planning (Roggema, 2010), e nel Transition Management (Kemp, Loorbach, 2006). Nel secondo caso occorre ricordare che, almeno negli interventi di maggior rilevanza, la pianificazione si organizza dal basso, nel senso che le intenzioni dei grandi attori vengono ascoltate, discusse ed eventualmente integrate nel piano. Non si vede perché questo processo non possa essere esteso a tutti gli attori indipendentemente dalla loro taglia, e in maniera palese, di modo che il piano in continuo divenire, sia formato con una sorta di crowdsourcing, in cui tutti intervengono rispettando regole stabilite e regolando attraverso dei giudici terzi i conflitti tra interessi divergenti (Portugali, 2011). Certamente occorre evitare in qualche modo l’”assalto alla diligenza”, ma perché in questo caso non dare voce istituzionale a chi del bene comune, vedi soprattutto l’ambiente, già se ne occupa e intende tutelarlo? Una utopia? Forse, ma visto che funziona già così per i grandi progetti di investimento, e che i processi di democratizzazione hanno portato alla diffusione delle opportunità per tutti, non si vede perché anche in questo campo non possa ripetersi il fenomeno.

Ferdinando Semboloni, Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio – Università di Firenze

Riferimenti bibliografici

Fioretti G. (1998), A Concept of Complexity for the Social Sciences, Revue Internationale de Systémique, 12, 3: 285-312.

Friedmann J. (1987), Planning in the Public Domain. From Knowledge to Action, Princeton New Jersey: Princeton University Press.

Kemp R., Loorbach D. (2006), Transition Management: a reflexive governance approach, in, Voss J-P., Bauknecht D., Kemp R. (eds.), Reflexive Governance for Sustainable Development, Cheltenham: Edward Elgar.

Luhmann N. (1982), The World Society as a Social System, International Journal of General Systems, 8, 1: 131-138.

Luhmann N. (1997), Limits of steering, Theory, culture & society,14: 41-57.

McLoughlin J.-B., (1973), La pianificazione urbana e regionale, trad. it., Padova: Marsilio.

Mintzberg H., Waters J. A. (1985), Of strategies, deliberate and emergent, Strategic Management Journal, 6, 3: 257-272.

Portugali J. (2008), Learning From Paradoxes about Prediction and Planning in Self-Organizing Cities, Planning Theory, 7, 3: 248-262.

Portugali J. (2011), Complexity, Cognition and the City, Berlin: Springer-Verlag, Cap. 16, A Self-Planned City.

Ratcliffe J., Krawczyk E. (2011), Imagineering city futures: The use of prospective through scenarios in urban planning, Futures 43: 642-653.

Roggema, R. E. (2010), Swarm planning: A new design paradigm dealing with long-term problems associated with turbulence, in Ramírez R., Selky J.W., van der Heijden K., Business planning for turbulent times: new methods for applying scenarios, London: Earthscan.

Semboloni, F. (2005), Optimization and Control Of Urban Spatial Dynamics, Complexus, 2: 204-216.

Solomon S., Shir B. (2003), Complexity; a science at 30, Europhysics News 34: 54-57.

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