Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Una “economia verde” e modelli insediativi di transizione favorirannno l’uscita dalla crisi?

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di: Agata Spaziante
EyesReg Vol.1, N. 1 – Maggio 2011.

Crisi dell’economia e crisi di città e territori: processi indipendenti ma convergenti

Che l’economia sia in crisi e che lo sia ancora per un tempo non breve, è problema ampiamente riconosciuto.
Che lo siano anche città e territori è altrettanto noto ed altrettanto vero. Cosa salverà questa e quelli?Questa domanda aleggia ormai da alcuni anni molto più nelle battaglie politiche e nelle riflessioni di attori pubblici e privati che nei dibattiti scientifici, ma arriva da lontano. “La crisi è quando il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, diceva Antonio Gramsci, e questo pensiero è un invito a mettersi rapidamente alla ricerca di nuove strade e nuove prospettive, perché il nostro vecchio modello di sviluppo sta morendo ed il nuovo stenta a nascere.

Vorrei porre all’attenzione degli studiosi di scienze regionali una prima considerazione: che componenti rilevanti della situazione di grave difficoltà dei nostri sistemi economici sono certamente costituite dagli effetti della irresponsabile gestione del territorio e delle città ma forse soprattutto dalla mancata discussione del modello di vita attuale delle nostre società, puntato su obiettivi che oggi ci appaiono non più sostenibili, ovvero non più raggiungibili senza conseguenze drammatiche per le generazioni che seguiranno la nostra. Il drastico peggioramento delle condizioni insediative che preesisteva alla crisi economica e che quest’ultima non ha fermato, alimenta a sua volta le difficoltà economiche che ormai da quasi tre anni ci attanagliano, e la sensazione di un futuro meno affluente di quello che si prospettava alla attuale generazione produce un effetto di disimpegnata e passiva accettazione di un destino di rinunce. Sebbene crisi economica e crisi urbana e territoriale siano almeno in parte determinate da processi indipendenti, i loro reciproci effetti perversi rischiano di aggravare e di rendere perduranti tanto l’una quanto l’altra.

Infatti, per quanto marcate siano le differenze che questi fenomeni evidenziano (il declino della economia in Italia è iniziato almeno dieci anni fa, mentre il settore immobiliare, che maggiormente riguarda la crescita urbana, ha registrato andamenti largamente positivi almeno fino al 2008) non si può dimenticare che nemmeno nel periodo economico più favorevole la struttura urbana e l’organizzazione del nostro territorio hanno saputo dotarsi di istituti più moderni e di dotazioni territoriali più avanzate, in grado di mantenere il passo degli altri Paesi europei e di affrontare quei processi di degrado che già avevano devastato molte aree del nostro territorio: ed oggi, in condizioni di risorse sempre più scarse, il ritorno ad un senso di maggiore responsabilità nella gestione di questo patrimonio appare ancora meno probabile.

Sembra quindi giusto proporre alla comunità degli studiosi di scienze regionali una riflessione e lo stimolo di suggestioni ancora molto circoscritte ma emblematiche, che si propongono di contrastare questa dinamica di stasi o addirittura di recessione con proposte che affrontino le criticità manifestate da un genere di vita e da un modello insediativo che hanno contribuito a deteriorare la situazione territoriale, ambientale, economica.

Emerge infatti con molta evidenza non solo il problema delle risorse con cui contrastare l’insostenibilità e garantire la qualità delle città, ma anche quello della mancanza di strategie o anche solo di idee per affrontare la crisi dei sistemi insediativi che abbiamo ereditato, rivedendo i modelli, sociali, abitativi, di consumo su cui basare un futuro inevitabilmente diverso dal passato ma anche dal presente. E qualche richiamo a nuove esperienze e nuove ipotesi in questa direzione può generare qualche interesse.

Nuovi paradigmi insediativi aiuteranno ad uscire dalla crisi?

Se una delle componenti importanti per modificare la traiettoria del nostro modello di sviluppo è il sistema insediativo, occorre prestare attenzione ai segnali di cambiamento in questo ambito.

E qualche tentativo, anche se utopico e velleitario, di rovesciare la prospettiva in cui finora ci si è mossi, esiste: sono nate tanto in Italia quanto nel resto del mondo comunità come le “transition towns” che si adoperano ad individuare modalità per poter basare lo sviluppo su percorsi alternativi. Si tratta di esperienze infatti che nascono dalla accusa alla nostra civiltà di aver usato un’immensa quantità di risorse di creatività durante la crescita ed il progresso verso usi sempre più sofisticati delle energie non rinnovabili, ma di non essere ancora disponibile e capace di usare altrettante risorse di creatività nel percorso di decrescita e di contrazione nell’uso di queste fonti, che pure dobbiamo affrontare. Allo stesso tempo queste esperienze dimostrano fiducia nell’azione collettiva verso l’affermazione di un nuovo e più sostenibile modo di vivere attraverso diverse azioni: il potenziamento delle relazioni con le amministrazioni locali; il coinvolgimento della comunità nei processi di costruzione della “resilienza”; la diffusione di conoscenze e competenze sui processi di trasformazione che investono il clima e le emissioni di inquinanti; la formazione di gruppi che si occupino di tutte le tematiche fondamentali per la vita della comunità (alimentazione, energia, trasporti, salute, aspetti psicologici, economia e sostentamento, ecc.); la definizione di un vasto numero di progetti coordinati per promuovere la riduzione dell’uso dell’energia in una scala temporale di 15/20 anni, abbracciando tutte le aree e gli ambiti della vita della comunità.

Le forti avvertenze che vengono da queste esperienze circoscritte e dalle loro strategie di nicchia non risolveranno i nostri problemi ma ci indicano letture e volontà di azioni in controtendenza, significative di una più diffusa sensibilità su problemi del sistema insediativo attuale e dell’impegno verso una revisione degli obiettivi e dei modelli di vita, di consumo, di uso del suolo attuali, che meritano forse da parte della comunità scientifica analisi, bilanci, riflessioni e comunque attenzione.

Il 2% del PIL globale può promuovere uno sviluppo più responsabile?

Se queste esperienze nell’organizzazione delle comunità, molto circoscritte, si propongono di dimostrare che è possibile traghettare la nostra società industrializzata dall’attuale modello economico profondamente basato su una vasta disponibilità di energia a basso costo e su una logica di irresponsabile consumo di risorse che sappiamo non rinnovabili, verso un nuovo modello più sostenibile, non dipendente da questo tipo di risorse e caratterizzato da un alto livello di resilienza, va segnalato che esistono anche in campo economico correnti di pensiero che si propongono di abbinare la ricerca di una strategia di uscita dalla crisi mondiale ad importanti implicazioni territoriali attraverso la cosiddetta “green economy”. Il primo elemento ad essere messo in discussione, in questa linea, è la stessa misura delle dimensioni dell’economia di mercato, il Prodotto interno Lordo (PIL), che dal 1930 confronta ed aggrega a livello internazionale i livelli di crescita delle economie. Oggi si propongono altre unità di misura del successo di un Paese, orientate a valutare la qualità della vita e non solo la produzione.

Su questi temi stanno lavorando istituzioni di portata mondiale come UNEP (“United Nations Environment Programme”) che il 21 febbraio 2011 ha presentato a Nairobi il suo ultimo rapporto intitolato “How Two Per Cent of Global GDP can Trigger Greener, Smarter, Growth While Fighting Poverty”, in cui si sostiene la tesi che investendo il 2% del PIL globale in 10 settori chiave (agricoltura, costruzioni, fornitura di energia, pesca, foreste, industria comprensiva di quella dell’efficienza energetica, turismo, trasporto, gestione dei rifiuti e delle acque) si può avviare la transizione verso una “green economy” basata sul basso ed efficiente uso di energia fossile, ma capace allo stesso tempo di supportare una crescita quasi allo stesso ritmo di quella basata sul modello attuale.

Se anche la “green economy” nel breve periodo può determinare la perdita di posti di lavoro in alcuni settori (come per esempio la pesca o gli impieghi militari) la crescita di posti di lavoro in nuovi e più sostenibili settori attorno allo sviluppo di applicazioni delle energie rinnovabili, di agricoltura sostenibile ecc. potranno compensare le perdite nella “brown economy”. Possiamo fidarci di queste analisi e di questi suggerimenti che promettono per minimi investimenti annuali del PIL nel settore dell’efficienza energetica e degli impieghi delle energie rinnovabili un taglio della domanda di energia primaria del 9% al 2020 e del 40% al 2050? Possiamo credere che davvero i livelli di impiego nel settore dell’energia possano essere di 1/5 più alti di quelli previsti nello scenario attuale perché intorno al 2050 le energie rinnovabili diventeranno quasi il 30% della domanda globale di energia primaria?

Un impegno delle scienze regionali per andare a fondo sulla affidabilità di queste ipotesi e sullo studio degli effetti combinati nel campo delle tecnologie e dell’economia, nonché delle ricadute sul modo di vivere, di abitare, di consumare delle nostre società, è certamente di grande interesse ed un invito a seguire studi ed esperienze in questo campo, pur con tutte le cautele nei confronti di ipotesi talvolta avventurose e scientificamente poco fondate, mi sembra doveroso.

Conclusioni

Alla domanda posta nel titolo di questa nota (“Una” economia verde” e modelli insediativi di transizione favoriranno l’uscita dalla crisi?”) credo dunque si possa rispondere che segnali orientati a rivedere il nostro modello di società verso obiettivi ed azioni diverse sono in vista, ma si tratta ancora di esperienze isolate e circoscritte, talvolta di utopie velleitarie ed autocentrate, oppure di ipotesi ancora poco verificate e non sostenute da sufficienti approfondimenti scientifici, ancora poco supportate da strategie ed azioni politiche che ci consentano di sperimentarle a fondo e di valutarne l’affidabilità.

Legittimo dunque chiedersi se i tanti appelli al cambiamento del nostro modello di sviluppo troveranno risposte in questi suggerimenti ed in queste esperienze che si propongono di aiutarci ad uscire dalla crisi gravissima in cui siamo coinvolti e di accompagnarci in una transizione, non facile e non breve, verso un modello più virtuoso.
Per dirla con Gramsci, la crisi è ancora fra di noi, perché il vecchio sta morendo e il nuovo che nasce è ancora incerto.

Le scienze regionali sono però il giusto ambito in cui riflessioni, verifiche, risposte dovrebbero e potrebbero maturare, all’incrocio fra economia, tecnologia, urbanistica, scienze ambientali.
Saranno questi i temi di studio privilegiati nel futuro prossimo, soprattutto dai giovani studiosi di scienze regionali? Sarà anche su questi interrogativi che la prossima Conferenza nazionale dell’AISRe saprà riflettere, approfondire e tentare risposte?

Agata Spaziante, Politecnico di Torino

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