Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Politiche di innovazione per le regioni Europee

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di: Roberta Capello

EyesReg, Vol.1, N. 2 – Luglio 2011.

L’importanza della conoscenza e dell’innovazione per la competitività dei sistemi economici moderni è ormai un dato di fatto. Da tempo si parla di economia della conoscenza come modello economico competitivo, in cui la conoscenza diviene la risorsa strategica su cui si gioca la capacità dei sistemi di innovare e di modernizzarsi.

Sull’onda di queste riflessioni, l’agenda di Lisbona, formulata nei consigli dei ministri europei tenutisi a Lisbona e in Lussemburgo all’inizio degli anni 2000, raccomandava all’intera Europa di mettere in campo una strategia per raggiungere il 3% di spese in ricerca e sviluppo sul PIL nel 2010, a quel tempo assestato intorno al 1.8%.

Nonostante quella raccomandazione, e gli sforzi compiuti in quella direzione, nel 2009 il rapporto spesa in ricerca sul PIL a livello europeo era ancora al 1.84%, con ampie disparità territoriali; a livello di paesi, solo la Finlandia e la Svezia superano oggi il 3% nel rapporto R&D su PIL, mentre la maggior parte delle altre nazioni si attesta sotto il 2%. Il quadro risulta ancora più preoccupante quando il dato è analizzato a livello regionale: solo 11% delle regioni (definite con dati a NUTS2) in 32 paesi europei presenta un rapporto R&S / Pil superiore al 3%, e, dato ancora più preoccupante, una percentuale elevata di regioni europee presenta lo stesso rapporto sotto lo 0.5%. Le regioni italiane non fanno eccezione: Nel nord-ovest, parte del centro e del sud, il rapporto R&S sul Pil è tra l’1% e il 2%, mentre nel resto del paese si attesta intorno allo 0.5%.

Dai dati europei e italiani sulla ricerca e sviluppo ottenuti, ci poniamo qui una domanda semplice, la cui risposta è tuttavia complessa: qual è lo stadio di sviluppo dell’economia della conoscenza nelle regioni europee, e quanto questo stadio di sviluppo può in realtà essere migliorato con politiche di supporto alla ricerca e sviluppo, rilanciate nel documento ufficiale dell’Unione europea “Europe 2020” che richiama il 3% della ricerca e sviluppo sul PIL come strategia per il raggiungimento di una “crescita intelligente” (“smart”) (CEC, 2010)?

L’economia della conoscenza può essere misurata in molti modi: può essere una economia basata su una forte specializzazione in settori high-tech, sia di servizio che industriali, che a livello regionale richiama la presenza di cluster high-tech, come Sophia Antipolis, nelle vicnanze di Nizza, il Baden-Wüttenberg nel Sud della Germania, lo Jutland in Danimarca, lo Smaland in Svezia. Può essere misurata con la presenza di attività di funzioni avanzate, di ricerca e sviluppo, e di capitale umano, che richiama le concentrazioni di centri di attività di ricerca scientifica, spesso nelle grandi città. Infine, può essere misurata come la presenza di conoscenza ottenuta (con legami di prossimità spaziale o a rete) da altre regioni.

Una recente applicazione empirica di queste misurazioni alle regioni europee, sviluppata da chi scrive all’interno di un progetto europeo (ESPON, 2011), ha restituito un quadro dell’Europa estremamente interessante, che fa emergere due tipi di messaggi. Il primo è che le regioni in cui l’economia della conoscenza si esplica attraverso la presenza di attività scientifiche sono solo una piccola parte delle regioni europee, mentre molto elevato è il numero di regioni che sfruttano conoscenza sviluppata in altre regioni. Il secondo, e per alcuni versi più preoccupante messaggio, è che il numero di regioni che mostrano un’economia della conoscenza, intesa in qualsiasi delle tre accezioni sopra menzionate, è molto basso (48%). L’Italia in questo quadro presenta una situazione a dir poco preoccupante: ad eccezione del nord ovest (con l’esclusione della Liguria), le regioni europee non registrano situazioni che possono essere definite di “economia della conoscenza”. Esse infatti mostrano sia in termini di attività scientifiche (ricerca e sviluppo, capitale umano, partecipazione a progetti scientifici), sia in termini di specializzazione produttiva in settori avanzati (sia industriali che di servizio), sia in capacità di sfruttare conoscenza proveniente dall’esterno, una posizione inferiore alla media europea.

Davanti ad un quadro siffatto, tendiamo a ritenere che la strategia che l’Europa mette in atto per sviluppare il rapporto tra ricerca e sviluppo e PIL al 3%, e ottenere così una più elevata competitività dell’Unione, sia mal posta; da un lato è impossibile che da situazioni regionali così povere in termini di capacità di generare conoscenza sia possibile raggiungere i livelli attesi dall’Unione Europea, dall’altro è sbagliato pensare che da situazioni di partenza così eterogenee anche nei modi di generare conoscenza, in molti casi non associabile ad attività di ricerca scientifica, la politica di incentivi alla ricerca e sviluppo sia quella vincente.

Un altro risultato interessante della ricerca svolta da chi scrive, e che suffraga quanto detto finora, è che la capacità innovativa delle regioni non è certo associata alla sola presenza di attività di ricerca e sviluppo nella regione. Questo ci ricorda che dobbiamo allontanarci dall’uguaglianza, spesso implicita nei nostri approcci teorici e normativi, che conoscenza significhi ricerca scientifica, e che solo la presenza di attività di ricerca spieghi la capacità innovativa. Quest’ultima scaturisce da modelli di generazione della conoscenza alternativi alla ricerca e sviluppo: ogni regione ha il suo “modello di innovazione”, basato su specifiche fonti di conoscenza, e di creatività locale spesso associata a conoscenze esterne all’area. E’ spesso il caso della capacità innovativa delle regioni italiane, poco ancorata ad una capacità di ricerca e sviluppo e spesso invece il risultato di capacità di creazione nel design del prodotto sulla base di conoscenze tecniche sviluppate altrove.

A nostro avviso è sull’individuazione di questi modelli di innovazione territoriale che bisogna lavorare; una volta evidenziati, aprono la strada a politiche di innovazione mirate sulle specificità del modello innovativo locale. La politica del “one size fits all”, da tempo criticata per le politiche di sviluppo locale, anche nel campo dell’innovazione sembra aver ampiamente dimostrato di non dare i risultati sperati: i fallimenti lasciano aperta la strada a strategie più calibrate sulle caratteristiche del modello di innovazione messo in atto dalle singole regioni.

Roberta Capello, Politecnico di Milano

Riferimenti bibliografici

CEC – Commission of the European Communities (2010), Europe 2020. A Strategy for Smart, Suitable and Inclusive Growth, Communication from the Commission, COM(2010)2020

ESPON (2011), Knowledge, Innovation and Territory, Inception Report available on the ESPON website http://www.espon.eu

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1 Comment

  • Il quadro conoscitivo di questa prima fase del progetto ESPON è estremamente interessante. Conferma, come detto nell’articolo, che nelle politiche per l’innovazione “one size does not fit all”. A conclusioni simili, ma con una metodologia di casi di studio su 9 regioni europee, arriva un progetto Interreg IVC denominato ERMIS (www.ermisproject.eu) che sta costruendo un set di raccomandazioni, sia per il livello territoriale che per la UE, basate sulla prospettiva della “place-based innovation”. Sarà interessante analizzare le successive analisi del progetto Espon menzionato. La convergenza di tutte queste diverse linee progettuali potrebbe auspicabilmente incidere sulle politiche di innovazione in coincidenza con la nuova fase di programmazione strutturale europea dopo il 2013.

 
 

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