Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Area vasta, ente intermedio ed adeguatezza nel governo del territorio

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di: Marco Pompilio

EyesReg, Vol.1, N. 4 – Novembre 2011.

Il disegno di legge costituzionale “Soppressione di enti intermedi”, approvato dal Consiglio dei Ministri l’8 settembre 2011 e trasmesso alla Conferenza Unificata, dispone l’eliminazione delle province per contribuire a ridurre i costi del settore pubblico, e allo stesso tempo rinvia alle regioni la definizione di un nuovo ente per il governo dell’area vasta.

Il dibattito che seguirà nei prossimi mesi potrebbe costituire occasione per reintrodurre un poco di razionalità sulla questione delle province, o meglio del riordino dei livelli istituzionali, troppo spesso negli ultimi anni affrontata in modo emozionale e sbrigativo.

Una questione di costi

Nei giorni successivi alla presentazione della manovra si è parlato molto di costi delle strutture provinciali, ma i risparmi teoricamente ottenibili sono risultati molto poco significativi rispetto agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica. Eliminando le province si possono tagliare i costi degli apparati politici, ma le funzioni svolte e le strutture tecniche dovrebbero essere comunque trasferite ad altri enti.

Non si è invece accennato ai maggiori costi territoriali, che deriverebbero da una probabile minore capacità di governo dell’area vasta. Vi sono temi, come le infrastrutture a rete, il paesaggio, molti aspetti ambientali, ma anche alcuni insediativi (commercio, logistica, ecc.), che non possono essere affrontati attraverso la semplice sommatoria dei piani comunali. Necessitano di un coordinamento più ampio, di una visione organica, senza la quale ne deriverebbero congestione, consumo di suolo agricolo, inquinamento, degrado paesaggistico. Aspetti che influiscono sulla qualità del contesto in cui viviamo, ma che implicano anche una minore efficienza complessiva e quindi una minore competitività dei nostri territori, e complessivamente del nostro sistema Paese.
Questi costi sono difficili da quantificare, e da comunicare, e si tende a tralasciarli. Anche se i risultati sul territorio sono ben visibili ormai in ogni parte della penisola.

Con i piani territoriali delle province, introdotti nell’ordinamento nel 1990, si sono in questi anni sperimentati strumenti e modalità di coordinamento territoriale. Non sono mancate le difficoltà, ma sono state affrontate e si stanno superando attraverso successivi affinamenti, in stretta e fattiva collaborazione con i comuni. Le esperienze positive sono ormai numerose.

Fermare questa evoluzione, per ripartire con una riforma complessiva degli enti locali, significa introdurre un’incerta fase di transizione, presumibilmente molto lunga, durante la quale la funzione di coordinamento verrebbe a mancare. Una funzione tanto più necessaria ora che la dimensione dei problemi territoriali sta diventando sempre più ampia, e contemporaneamente sussidiarietà e autonomia stanno portando ad una sempre maggiore frammentazione delle competenze.

La dimensione dell’area vasta

Il DDL detta per l’ente intermedio le dimensioni minime di 300.000 abitanti o 3.000 km2, e il vincolo di non superare in numero quello attuale delle province. Esiste dunque per il DDL un’esigenza di accorpamento e ridisegno degli enti secondo criteri di adeguatezza. Le indicazioni sono esplicite per le province piccole, ma è evidente che, se si vuole agire secondo logica razionale, ragionamenti analoghi nel percorso di riforma dovranno essere affrontati anche per i piccoli comuni, o quantomeno per le loro funzioni, e per le piccole regioni, oltre che per gli altri enti intermedi di dimensione contenuta.

Figura 1. Confini amministrativi dei comuni, ISTAT 2011
1a. Nord

1b. Sud

Se questo può essere un punto di partenza, c’è tuttavia ancora molto da riflettere in quanto la capacità di governo degli aspetti di area vasta non può essere semplicemente pensata come direttamente proporzionale alla dimensione dell’ente.

La questione su cosa si intenda per area vasta rimane aperta e non è affrontata dal DDL. Le indicazioni sopra accennate portano a pensare ad una dimensione sovraprovinciale. Nella realtà l’area vasta si riferisce ad un insieme di comuni che per caratteristiche e interessi convergenti sono motivati a fare sistema, valorizzando e mettendo in sinergia le potenzialità presenti in ciascun municipio. L’esperienza applicativa mostra che tale dimensione non coincide, se non per casi eccezionali, con la provincia, i cui confini costituiscono riferimento più amministrativo che territoriale. La reale dimensione di area vasta si colloca in una posizione intermedia tra quella provinciale e quella comunale, ed in una provincia coesistono generalmente più sistemi territoriali di area vasta.

Il governo dell’area vasta richiede un’interazione dinamica e dialettica tra comune e provincia, da affrontare attraverso un tavolo di stretta cooperazione dove vengano messe assieme le competenze degli strumenti di pianificazione di entrambe i livelli istituzionali. Il piano territoriale provinciale è il luogo entro cui può essere sviluppata una visione d’insieme, prospettica, sufficientemente distaccata dalla contingenza delle trasformazioni, e dalle pressioni che spesso sono a queste connesse. Allo stesso tempo, gran parte delle indicazioni del piano territoriale per tradursi in azioni cogenti devono prima essere recepite alla scala di maggiore dettaglio della pianificazione comunale, dove risiede la competenza primaria sul governo delle trasformazioni.

Il DDL chiede alle regioni di individuare un nuovo ente intermedio per il governo dell’area vasta, ma il numero di aree vaste è molto superiore a quello delle province.
Inoltre, è oggettivamente difficile pensare un nuovo ente per una dimensione di area vasta che non è fissa, ma si evolve e varia nel tempo e nello spazio in funzione delle dinamiche territoriali e degli aspetti tematici presi in considerazione. Il governo dell’area vasta richiede un’organizzazione flessibile, per così dire a geometria variabile, difficile da conciliare con il disegno organizzativo di un ente locale, esistente o nuovo che esso sia.
L’area vasta si affronta combinando in modo dinamico le competenze degli enti che le sono più prossimi, organizzando la risposta il più vicino possibile alla scala alla quale i problemi di area vasta si presentano. Questo richiede innovazione, e la sperimentazione di strumenti nuovi.

Adeguatezza, attori e strumenti. Quale soluzione?

Il percorso per approvare e attuare la riforma e passare ad un nuovo livello istituzionale è lungo, potrebbe richiedere anni o forse decenni. Le città metropolitane, introdotte con la riforma del 1990, sono oggi ancora tutte sulla carta. Oltre ai tempi permane inoltre l’incertezza su come possa fare un ente per assumere una configurazione a geometria variabile.

Esiste quindi una questione di adeguatezza nel trattare i temi di area vasta, che è tutta ancora da esplorare. Ma se i tempi di attuazione non sono brevi sarebbe saggio prima verificare se sia possibile l’utilizzo di quanto già oggi disponibile, riorganizzando i livelli istituzionali presenti nel nostro ordinamento.

L’adeguatezza non è detto che sia direttamente proporzionale alla dimensione dell’ente, come sembra invece emergere dal testo del DDL. Le regioni sono distanti dalla realtà territoriale e fanno fatica a seguire le dinamiche territoriali di ciascun comune. E tanto più fanno fatica quanto più è elevato il numero dei comuni, anche nei casi in cui siano dotate di articolati e valenti apparati tecnici.

Le unioni dei comuni, così come attualmente configurate nel d.lgs 267/2000, possono funzionare per ottimizzare la gestione dei servizi, ma non possono svolgere le funzioni di governo territoriale di area vasta. Si pensi alla verifica di compatibilità prevista sempre nel d.lgs 267/2000 che, se affidata all’unione, creerebbe una situazione di coincidenza tra controllore e controllato.

I comuni, o anche le associazioni di comuni, vanno comunque messe in rapporto dialettico con un’istituzione dotata di una propria autonomia, capace di sviluppare una visione d’insieme, che stia al passo con i processi di trasformazione ed innovazione infrastrutturale, logistica, insediativa, indispensabili per la sopravvivenza economica del Paese. L’area vasta, collocata in posizione intermedia tra provincia e comune, può essere efficacemente affrontata solo attraverso un rapporto dialettico, paritario, tra due enti che godano di rispettiva autonomia decisionale. Una provincia pensata come ente di secondo livello non elettivo, come anche il DDL ipotizza, non sarebbe autonoma, e questo renderebbe gli aspetti di area vasta deboli, soccombenti rispetto agli interessi locali che sostengono le trasformazioni.

In definitiva la questione di governo dell’area vasta sollevata dal DDL è importante, ma non si risolve semplicemente eliminando le province e sostituendole con un nuovo ente intermedio, ancora peraltro tutto da immaginare. Esiste il rischio che la riorganizzazione porti ad incrementare il numero dei livelli intermedi e dei costi complessivi, ed a perdite di competitività connesse con le incertezze di una lunga fase di transizione.
Il nuovo ente intermedio, per tutelare gli aspetti di area vasta, dovrebbe essere distinto dalle unioni dei comuni ed avere un grado sufficiente di autonomia decisionale. Finirebbe in sostanza per avere caratteristiche molto simili alle attuali province come configurate dal d.lgs 267/2000.

Ma allora, volendo agire in tempi brevi, si potrebbe fin da subito fare tesoro delle esperienze in corso. In alcune province già da alcuni anni sono attive forme di assemblee dei sindaci, dove si concordano le strategie e le azioni inerenti gli aspetti di governo del territorio. Sono anche stati prodotti strumenti di pianificazione di area vasta, utilizzati per concordare le scelte più importanti, e che in qualche caso hanno anche assunto formale valenza di piano strutturale per i comuni aderenti.

Si potrebbe continuare con le citazioni, l’elenco delle sperimentazioni è ormai corposo. Per favorirle ci vogliono strumenti quali intese, accordi e tutto quanto utile per rendere più efficienti i tavoli di cooperazione interistituzionale. Già ne esistono, ma possono essere ulteriormente rafforzati. Per farlo servono leggi regionali, eventualmente una norma nazionale di indirizzo, comunque interventi normativi che non necessiterebbe i tempi lunghi di un passaggio di modifica costituzionale.

Marco Pompilio libero professionista, esperto in pianificazione territoriale

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8 Comments

  • I temi sollevati dall’articolo di Marco Pompilio centrano gli esiti di una lunga serie di dibattiti, di confronti e di collaborazioni tra i responsabili della pianificazione territoriale delle Province (categoria alla quale appartengo, in quanto Direttore della Pianificazione territoriale e di Bacino della Provincia di Genova).
    Sulla base delle mie personali esperienze di pianificatore, ed anche a seguito dei recenti tragici eventi alluvionali che hanno interessato il territorio provinciale, vorrei contribuire allo sviluppo di una riflessione sulla riorganizzazione delle Autonomie Locali, che è parte del programma del nuovo governo nazionale, con le seguenti puntualizzazioni.

    1. L’eliminazione delle Province ed il trasferimento del personale e delle competenze alle Regioni non comporta benefici economici, se non di carattere marginale.
    2. Per contro la minore capacità di pianificazione, gestione e manutenzione del territorio provoca costi territoriali (minori difese dalle calamità naturali, squilibri tra territori congestionati e territori abbandonati) che non vengono presi in considerazione nei dibattiti in corso. La mancanza di piani di qualità o il loro tradimento attraverso politiche del “caso per caso” generano disastri.
    3. Se il superamento della crisi può avvenire non solo con i tagli di spesa, ma anche attraverso l’avvio di processi di sviluppo economico, i piani provinciali, che sono già disponibili e frutto spesso di percorsi di concertazione con le diverse componenti del territorio, possono dare un contributo sostanziale indicando obiettivi di crescita diffusa nelle piccole e medie città, piuttosto che puntare a pochi, grandi interventi infrastrutturali che interessano parti limitate del territorio.
    4. La dimensione ottimale per la formazione di piani di area vasta, nei quali gli obiettivi dello sviluppo si basino su caratteristiche omogenee del territorio e quindi sulla condivisione delle comunità locali, è quella nella quale si realizzano effettivi rapporti di collaborazione tra i Comuni su temi di interesse collettivo; una dimensione sovraprovinciale difficilmente può garantire risultati omogenei e programmi di intervento tra loro coerenti. Le Regioni hanno difficoltà a creare “sistemi locali” e tendono piuttosto a rapporti individuali con i singoli Comuni.
    5. La realtà italiana è caratterizzata da poche grandi città che potranno costituire le “città metropolitane” (da lungo tempo previste e mai finora realizzate) ma soprattutto da una miriade di città e centri urbani piccoli e medi; la pianificazione del territorio di tali aree vaste non può essere affidato alle associazioni di Comuni e neppure alle Regioni, ma ad un Ente intermedio che garantisca la qualità dei piani di sviluppo locale.

    Vorrei concludere citando un’esperienza in corso: cinque piccoli Comuni della val Trebbia, un’area montana ai confini della Liguria, teatro di processi di spopolamento e abbandono, hanno deciso di elaborare congiuntamente il proprio Piano Urbanistico Comunale con la collaborazione delle strutture provinciali, interpretando in questo modo i principi di concertazione degli atti tra gli Enti titolari ai diversi livelli del potere della pianificazione territoriale, sanciti dalla legge urbanistica regionale.
    L’elaborazione del Piano Coordinato sta producendo interessanti risultati non solo per quanto riguarda le possibili prospettive di sviluppo di quei territori ora marginali, ma anche offrendo indicazioni di carattere generale sulle politiche da attuare negli ambiti montani, che nascono non da astratte teorie, ma dalla diretta osservazione dei fenomeni e dal coinvolgimento degli attori locali.

    Andrea Pasetti

    • Massimo Lanfranco

      Mi permetto di segnalare l’esempio piemontese.
      per quanto in piemonte le province siano vitali ed attive, non svolgono praticamente nessuna funzione pianificatoria, riservate a comuni e regione. Eppure la situazione di difesa dal rischio geologico ed idraulico è molto migliore di quella ligure, demandata formalmente alle Province e con piani di bacino apparentemente molto più facili da gestire di quello del Po.
      Massimo Lanfranco
      ex responsabile della pianificazione di bacino
      Provincia di Savona
      Provincia di savona

  • Il tema delle funzioni di area vasta è centrale nella riorganizzazione istituzionale del nostro paese in quanto le azioni intraprese nell’ultimo ventennio per dare efficienza alla gestione di funzioni di bacino/area vasta hanno sostanzialmente prodotto effetti contrari.
    Ed è indubbio che un sistema articolato solo su due livelli: comuni e regioni non funziona. Infatti, almeno in Toscana, sono numerose le funzioni regionali trasferite alle province perchè la regione non è in grado di gestirle.
    D’altro canto credo che la stagione delle agenzie, aziende e consorzi sia finita e che non abbia prodotto risultati tali da poterne immaginare una rinascita. Faccio un esempio in Toscana l’ARPAT è stata costituita mettendo insieme in primo luogo gli ex Laboratori Provinciali d’igiene e Profilassi e poco altro, spesso rimanendo negli stessi locali e svolgeno funzioni di controllo ma anche di studio di area vasta per conto prevalentemente della Provincia. Credo che ragionevolmente si può immaginare che questa funzione possa essere svolta meglio se viene gestita direttamente dalla Provincia e non in convenzione e che i lavori possano essere più ederenti ai bisogni della Comunità Amministrata espressi dagli amministratori eletti. Le stesse funzioni in materia di difesa del suolo ed idraulica sarebbe bene fossero concentrate in un solo ente di area vasta e non polverizzate fra Consorzi, Autorità, Regione, ecc. con il risultato quantomeno di programmazioni scoordinate e di interventi inefficaci.
    La pianificazione territoriale è evidentemente l’esempio più emblematico della necessità di un ente intermedio d’area vasta democratico, elettivo e costituzionale; che abbia una propria ed autonoma funzione nella pianificazione strutturale in funzione delle risorse territoriali disponibili ed in grado di ripartire le quantità/qualità delle attività fra i vari Comuni che con la loro autonomia defiranno la conformazione dell’uso del suolo. Solo così si potrà parlare di reale sostenibilità dello sviluppo territoriale e di coordinamento dello stesso nell’area vasta. Anche qui, come è necessario in generale, individuando bene le funzioni pianificatorie delle province da quelle prettamente urbanistico-edilizie di competenza comunale senza sovrapposizioni e doppioni. Insomma sarebbe bene che paesaggio, difesa del suolo, infrastrutture e tutela delle risorse naturali (aria, acqua e suolo) fossero di esclusiva competenza dei piani di area vasta che attuano in via definitiva gli indirizzi della Regione.

    Renato Ferretti
    Area Pianificazione Strategica Territoriale
    Provincia di Pistoia

  • Nori Emili

    Nori Emili 9 dicembre 2011

    I temi di fondo di questo dibattito sulla soppressione dell’Ente Provincia possono essere individuati nel risparmio e nella semplificazione.
    Sul primo è già stato argomentato che i risultati sarebbero poco significativi rispetto agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, sulla semplificazione invece è opportuna una riflessione più approfondita in quanto tutti concordano sul fatto che le funzioni sono distribuite in modo non ottimale tra i diversi livelli (Regione, Provincia, Comune), e soprattutto con poca attenzione verso gli strumenti di leale collaborazione. E se la risposta immediata a tale problema porta ad individuare quale ovvia soluzione l’eliminazione delle province, bisognerebbe domandarsi se tale soppressione comporta effetti certi e sicuri e sia effettivamente il toccasana , o se invece non sarebbe preferibile un ripensamento organico verso una piena valorizzazione degli enti costituzionali, con una distribuzione chiara della competenze ai vari livelli.
    In proposito ritengo estremamente efficace il pensiero espresso dal professor Vincenzo Cerulli Irelli che in un’intervista sul tema dell’abolizione delle Province afferma come sia necessario” tagliare gli enti burocratici e non quelli democratici”, riferendosi al proliferare di Agenzie per l’ambiente, per il territorio, per i rifiuti, per le acque,…
    Ed allora se l’obiettivo è quello di una semplificazione effettiva, occorre ripartire dai criteri di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione che tutti citiamo, ma che in realtà non risultano tradotti in una corretta distribuzione delle funzioni tra i livelli di governo, e ragionare come le funzioni intercomunali della collaborazione tra Comuni per lo svolgimento di determinati servizi sia altra cosa dalle funzioni sovracomunali, di pianificazione, di localizzazione di politiche e di coordinamento del governo del territorio proprie della Provincia, e come le funzioni proprie della Regione siano quelle non operative ma strategiche: legislazione, programmazione, poteri sostitutivi.
    .Mi auguro che la legge nazionale affronti questi temi con i dovuti approfondimenti che potranno determinare anche restringimenti di funzioni in capo alla Provincia, ma che dovrebbero portare ad una chiara verifica su quale sia il livello più idoneo per l’attribuzione delle funzioni.

    Nori Emili
    Servzio urbanistica, pianificazione territoriale, mobilità
    Provincia della Spezia

  • Tralasciando le reazioni emotive dei primi giorni, ritengo che l’eliminazione delle Province debba passare per un più ampio, approfondito e ragionato riassetto della struttura amministrativa in Italia. Ho la sensazione (che non è più sensazione, ma certezza) che i nostri governanti siano stati presi dalla frenesia del risparmio a tutti i costi il cui risultato è stato quello di colpire l’anello debole del sistema. Altro non leggo dietro questa azione di soppressione delle Province. Invece, il tema meritava una riflessione seria e ponderata che, forse, questa classe dirigente non è stata in grado di affrontare. Era l’occasione per ridisegnare completamente il funzionamento della macchina amministrativa dando un nuovo ruolo alle Province quale braccio operativo delle Regioni su tematiche di area vasta che non possono avere soluzione nei ristretti confini comunali; questo avrebbe portato all’affermazione di un ruolo della Provincia che da sempre le è naturale (intermedio tra Regione e Comune) e, di riflesso, all’eliminazione della classe politica dell’Ente provinciale (a questo punto superflua). Ma va ripensato anche il ruolo dei Comuni; ne sono troppi, alcuni troppo piccoli, in difficoltà a provvedere alle mille richieste dei cittadini e impossibilitati a fronteggiare problematiche territoriali per problemi strutturali e di organico. Andava data anche una sforbiciata (qui si che ci sarebbero notevoli risparmi) alle pazze spese regionali per le società partecipate o per mantenere uffici inutili i cui risultati sono ancora tutti da verificare (con le dovute eccezioni). L’occasione, quindi, era preziosa per riorganizzare l’intera macchina, per eliminare le sovrapposizioni e per liberare le eccellenze. Ma ancora una volta, scusate lo sfogo, la miopia dei governanti ha deciso di somministrare al malato una medicina che non farà alcun bene per curare la vera malattia: l’eliminazione delle Province. Sono d’accordo nel rivedere il ruolo delle Province com sopra delineato ma solo all’interno di un disegno più vasto e complessivo di riforma della struttura amministrativa. Un’ultima sottolineatura: l’immagine scelta da Marco Pompilio per il suo articolo di una Italia disegnata dai confini comunali, restituisce ai nostri occhi uno dei veri problemi da affrontare. Come possiamo pensare di pianificare bene ed omogeneamente il nostro territorio, come possiamo credere di eliminare o mitigare il dissesto idrogeologico, come possiamo pensare di realizzare infrastrutture o abbattere le fonti di inquinamento quando il territorio è così frastagliato, spezzettato, miniaturizzato in tante municipalità spesso anche divise e in conflitto tra loro? Qui il ruolo delle Province è di primissimo piano: su questo fronte dobbiamo lottare e far sentire la nostra voce. Questo è il nostro futuro. Poi, se non avremo più una Giunta o un Consiglio provinciali dietro la nostra azione, questo sarà il problema minimo (o la nostra salvezza).

    Giuliano Di Flavio
    Responsabile Servizio Pianificazione Urbanistica
    Provincia di Teramo

  • Carlo Foderà

    Sono d’accodo con Marco Pompilio sul fatto che la possibile soppressione delle province non solo non rappresenta qualcosa di rilevante al fine di uscire dalla attuale crisi, ma rischia di arrecare ulteriori danni se prima non si pensa ad un’efficiente organismo sostitutivo che sia in grado di occuparsi della pianificazione territoriale.
    Il ritardo che la nostra pianificazione territoriale non dipende dalle province ma dall’inadeguato ruolo che il nostro ordinamento gli assegna e alla inadeguatezza del nostro regime dei suoli associato alla inadeguatezza della normativa urbanistica, ormai vecchia, anche culturalmente, di oltre 40 anni !!!
    La mancanza di pianificazione territoriale negli ultimi anni ha prodotto danni paragonabili almeno all’attuale debito pubblico. Senza contare la perdita di posti di lavoro per le mancate opportunità di accesso a fondi comunitari e alla perdita di attrazione per investitori locali, ma non solo. Siamo come dire della serie “ SENZA PIANI NIENTE SOLDI” .
    Quindi, come di può ben comprendere il problema è, innanzitutto, politico !!!
    In Sicilia, ad esempio, solo due province su 9 si sono occupate seriamente del proprio piano territoriale. Eppure in Sicilia le province sono regolate dalla L.R. n. 9/1986 e probabilmente il loro ritardo è dovuto, anche, alla mancata previsione di una norma che attivi poteri sostitutivi da parte della regione, come accade per i Piani Regolatori, nei confronti di quelle province inadempienti.
    Sono d’accordo sul fatto che si possa ridurre il numero dei consiglieri e degli amministratori provinciali, sia per ridurne i costi ma soprattutto per semplificare l’attribuzione delle responsabilità. Tutto ciò avviene in un contesto nel quale la Regione Siciliana ha una legge urbanistica vecchia di oltre 30 anni e la stessa non si è mai dotata del piano territoriale regionale ( questo è il vero problema !!! Sopprimiamo le regioni ??? ).
    Non è facile riscrivere, in tempi brevi, la perimetrazione di nuovi territori d’area vasta in sostituzione delle attuali province, almeno che li si voglia perimetrale come aree sub regionali. Da non trascurare il fatto che in alcuni casi queste aree potrebbero stare a cavallo di più regioni. Si rischia così di creare la cosiddetta “soluzione peggiore del male”.
    In ogni caso tutto ciò presuppone l’immediato avvio di un processo di “alfabetizzazione” del territorio, e soprattutto della politica, alla quale tutti noi siamo chiamati a dare un contributo, pena il nostro destino e quello delle prossime generazioni.

    Carlo Foderà
    Architetto libero professionista,
    già Consigliere Provinciale di Trapani

  • Paola Buoncristiani

    IL GOVERNO DEL TERRITORIO DI AREA VASTA

    In un momento come questo mi sembra di fondamentale importanza riflettere sul governo del territorio di area vasta con attenzione ai contenuti piuttosto che ai meri conteggi.
    In Umbria con la LR 3 giugno 1975 n. 40 erano stati definiti dodici “Comprensori” e previsti specifici contributi regionali per la costituzione di Consorzi tra Comuni. Questi nuovi organismi dovevano procedere alla redazione del “Piano urbanistico comprensoriale” in sostituzione dei “Piani regolatori generali” ed “intercomunali” e dei “Piani territoriali paesistici” ai sensi della legge 1497/39. Tali esperienze, come quelle analoghe di altre regioni, non hanno avuto riscontro alcuno per motivi di campanile, la suddetta legge regionale del 1975 è stata abrogata ed i Piani Paesaggistici sono stati redatti soltanto dopo che L.R. 28/95 ha delegato tale funzione alle Province ed al Piano Territoriale di Coordinamento.
    La dimensione provinciale si è rivelata particolarmente adeguata per consentire studi paesaggistici ed ambientali a scala di area vasta. Del resto i criteri posti alla base della definizione delle circoscrizioni territoriali, corrispondenti agli allora 69 ambiti provinciali, in alcune parti sembrano richiamare gli stessi principi della Convenzione Europea del Paesaggio ”la diversità di condizioni geologiche, etnografiche, climateriche, la situazione geografica, lo svolgimento storico di una parte di territorio di fronte all’altra genera costumanze, dialetti, indole, aspirazioni, bisogni ed interessi diversi, che richiedono una diversità di provvedimenti, di organismi e di criteri amministrativi e rendono più o meno facile o possibile l’attuazione degli scopi della pubblica amministrazione”.
    Con la legge regionale 13 del 2009 il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale ha assunto la chiara fisionomia di “strumento della pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistica di area vasta del territorio regionale, di dimensione strategica, programmatica e regolativa”. La stessa disposizione normativa attribuisce alla Provincia nuove competenze inerenti la collaborazione alla redazione dei PRG comunali – Parte Strutturale.
    L’auspicata attribuzione della funzione di Piano d’area vasta, conseguente alla maturazione del dibattito culturale sul concetto stesso di “Area Vasta”, sgombra il campo da possibili fraintendimenti. Pianificazione d’area vasta equivale a pianificazione “sovracomunale” e riguarda tutti gli interventi che determinano effetti che travalicano l’ambito comunale. Sembra ormai chiaro, in base alle esperienze maturate, che le funzioni “intercomunali”, legate al terreno di collaborazione tra Comuni per svolgere ed ottimizzare le funzioni comunali stesse, non possono essere confuse con quelle “sovracomunali”, riguardanti tutto ciò che in sussidiarietà non può essere attribuito ai Comuni e che il livello più appropriato alla espressione di queste ultime, secondo il principio di adeguatezza, risulta essere quello intermedio.

    Paola Buoncristiani
    Responsabile Ufficio Piano Territoriale di Coordinamento
    Provincia di Perugia

  • tommaso

    Occorre abrogare le regioni. La p.a. può essere benissimo organizzata con la sola struttura centrale di governo ed i Comuni. Nella storia, tutte le organizzazioni hanno sempre avuto due soli livelli di governo: uno centrale per le questioni di massima, ed uno locale per l’operatività. Tutto ciò che sta in mezzo è stato voluto al solo fine di creare poltrone politiche, ma senza alcun beneficio (bene che vada) per i cittadini. Tommaso

 
 

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