di: Roberta Capello
EyesReg, Vol.6, N.4, Luglio 2016
Alla 36° Conferenza Italiana di Scienze Regionali svoltasi ad Arcavacata di Rende nel settembre del 2015, Francesca Rota e Dario Musolino hanno organizzato una tavola rotonda sulla condizione degli insegnamenti di scienze regionali oggi in Italia. La rivista di Scienze Regionali, nel n. 2, vol. 15, del 2016 ha ospitato questo interessante dibattito, che provo qui a riassumere in breve, e a rilanciare.
Il quadro che emerge dai saggi dei colleghi, docenti di diverse università italiane, non è confortante. Dopo un periodo di florida crescita delle scienze regionali, coincidente con la costituzione dell’Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISRe), che ha visto il moltiplicarsi di corsi di economia regionale e urbana, soprattutto nelle facoltà di architettura, pianificazione e scienze politiche, e la formazione di economisti, ingegneri e architetti specializzati nelle Scienze Regionali attraverso corsi avanzati di Regional Science in università americane sotto la guida di Walter Isard (Camagni, 2016), l’Economia regionale e l’Urbanistica, quest’ultima nei suoi aspetti più squisitamente territoriali (Colloca, 2016), si scontrano oggi con una carenza di corsi universitari (Cutini, 2016), di laureati, e di conseguenza con un numero irrisorio di cattedre di I e II fascia e di posti di ricercatori in tutta Italia. Il trend che ormai esiste da un po’ di anni sembra non solo mantenersi, ma peggiorare nel tempo, con lo scioglimento di “scuole di pensiero”, ben note anche a livello internazionale, che hanno fatto la storia delle Scienze regionali in Italia negli anni ottanta e novanta, e che lasciano un vuoto nelle nostre università e nelle nostre discipline.
Le cause di questa situazione di sofferenza sono evidenziate in modo chiaro dai colleghi che sono intervenuti alla tavola rotonda. Sul fronte del mercato del lavoro, è emersa la crisi delle Regioni come enti di governo, la crisi delle politiche regionali nel Mezzogiorno, il ri-orientamento del governo centrale verso un centralismo, la tendenza degli enti locali ad assumere il ruolo di puri gestori dei fondi e ad ignorare qualsiasi aspetto strategico che possono assumere nell’economia locale e nazionale (Cappellin, 2016); da questa situazione discende una domanda formativa in sofferenza, ed un’offerta formativa non in grado di rilanciare il discorso verso nuove figure professionali appetibili per un mercato del lavoro in crisi (Senn, 2016; Mazzola, 2016). Sul fronte accademico, la ri-focalizzazione verso l’economia ortodossa, attraverso correnti di pensiero quali la Nuova Geografia Economica – intenta a ricercare in una modellistica neoclassica il ruolo dello spazio nelle scelte localizzative e a riconoscerla come novità assoluta, negando l’esistenza di cinquant’anni di economia regionale – non ha certo aiutato l’economia regionale ad imporsi nel panorama delle discipline economiche, e ha spinto sempre più verso una ri-disciplinarizzazione dell’offerta accademica. Non c’è da stupirsi (ma solo da intristirsi) sui dati che mostrano che i corsi di economia regionale sono molto contenuti in corsi di laurea in Economia e Economia aziendale (solo il 27% dei corsi di scienze regionali è svolto in corsi di laurea economico-sociali), e più presenti in corsi di laurea di Urbanistica, Sociologia e Architettura (37%) (Musolino e Rota, 2015).
Questo quadro viene dipinto in un momento nel quale la richiesta di ricerca e di analisi colte sul territorio e sulla sua gestione appare strategica per il futuro del nostro Paese. Si pensi alla ricerca di “specializzazioni intelligenti” da parte delle regioni come requisito fondamentale per l’accesso al nuovo round di fondi strutturali (2014-2020); alla definizione degli effetti di confine sulle regioni “border” per l’allocazione dei nuovi fondi INTERREG; alla necessità di conoscenza su temi strategici, quali le macro-regioni, le regioni interne, l’attrattività e la competitività delle regioni attraverso investimenti diretti esteri, richieste da ESPON (European Spatial Observation Network) per il prossimo Rapporto di Coesione e la prossima programmazione di fondi comunitari. Sono tutti spazi di ricerca internazionali che poche università italiane sanno cogliere, e che lasciano spazio, come dice giustamente Cappellin (2016), a società di consulenza raramente di alto profilo.
Tutto ciò porta a evidenziare che in Italia abbiamo necessità di un rilancio delle Scienze Regionali all’interno delle nostre università. I fronti su cui lavorare a mio avviso sono molti, e provo qui a sintetizzarli.
In primo luogo, l’offerta formativa dei corsi di economia regionale deve saper stimolare una domanda di lavoro attraverso l’offerta di figure professionali nuove, preparate per le sfide che attendono oggi (ed in futuro) le Regioni e gli enti locali in generale (dall’identificazione della specializzazione intelligente, alla gestione della macro-regione).
In secondo luogo, è necessario un rilancio dell’identità disciplinare, non come spinta all’arroccamento ma, al contrario, come elemento propulsivo verso la cooperazione con discipline complementari, attraverso una chiara identificazione delle proprie competenze e delle carenze colmabili attraverso una collaborazione interdisciplinare. Questo significa saper individuare i propri punti forti, ma essere anche pronti a individuare, e accettare, i limiti della disciplina. Sono un esempio la necessità di un confronto con i macroeconomisti per individuare gli effetti regionali di trend macroeconomici, la ricerca di expertise di economisti industriali (e aziendali) per ricercare sempre più le determinanti di un legame impresa-territorio, la richiesta di conoscenze degli economisti internazionali per comprendere i fenomeni spaziali degli investimenti diretti esteri. In questo modo, il valore dell’Economia regionale emergerebbe come fondamentale anche alle altre discipline.
Inoltre, è necessario essere molto compatti nel rifiutare lo sconfinamento verso la nostra disciplina da parte di neofiti colti e intelligenti, ma poco propensi a riconoscere meriti a precedenti studi; in questo senso, in passato si è verificata una tendenza, da parte addirittura dei grandi padri delle Scienze Regionali a livello internazionale, ad accettare teorie e approcci metodologici “nuovi”, senza rivendicarne in parte la paternità o senza avanzare forti critiche all’utilizzo di concetti ormai superati nell’economia regionale, come quello di distanza fisica per l’interpretazione dello spazio nella modellistica economica.
Allo stesso tempo, non dobbiamo rimanere ancorati a paradigmi passati o ormai noti, candendo nel ripetitivo e nel nostalgico, come è avvenuto su temi dell’economia regionale che hanno rappresentato un salto paradigmatico quando avvenuti (ad esempio, i distretti industriali), ma che oggi, se ribaditi nella loro formula originale con solo qualche riflessione marginale aggiuntiva, generano inevitabilmente il rischio di esporre la disciplina a facili critiche di chi non crede nel suo valore. E’ invece necessario essere in grado di ricercare le novità, sia concettuali che metodologiche, anche in altre discipline, sapendole sfruttare per superare limiti nei propri ambiti di ricerca.
Infine, ritengo che le Scienze Regionali stiano perdendo una grande opportunità, quella della spinta alla multidisciplinarietà, richiesta ad esempio da importanti enti interazionali (l’Unione Europea) finanziatori di programmi di ricerca (Horizon 2020), o dal nostro Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica (ad esempio con i dottorati). Le Scienze Regionali hanno un vantaggio in questo ambito rispetto ad altre discipline, quello di lavorare già da anni intorno ad un progetto multidisciplinare, con un comune oggetto di analisi – il territorio – un vantaggio finora non sfruttato e che va invece valorizzato; su questo argomento vale la pena rilanciare una riflessione anche all’interno dell’AISRe, in un periodo nel quale il futuro delle Scienze Regionali e delle sue discipline accademiche è a rischio. Queste ultime vanno protette e rilanciate, sapendo cogliere tutte le opportunità che si presentano.
Roberta Capello, Politecnico di Milano
Riferimenti bibliografici
Camagni R. (2016), “Scienze Regionali e Accademia: un Passato Ricco, un Futuro da Costruire”, Scienze Regionali, Italian Journal of Regional Science, 15(2), pp. 121-124
Cappellin R. (2016), “La Rilevanza delle Scienze Regionali nelle Università Italiane”, Scienze Regionali, Italian Journal of Regional Science, 15(2), pp. 125-128
Colloca C. (2016), “L’approccio Sociologico All’analisi dei Territori: Sfide e Prospettive”, Scienze Regionali, Italian Journal of Regional Science, 15(2), pp. 139-140
Cutini V. (2016), “La Formazione dei Territorialisti nelle Scienze Regionali: Difficoltà nell’Offerta, Debolezza della Domanda”, Scienze Regionali, Italian Journal of Regional Science, 15(2), pp. 137-138
Mazzola F. (2016), “Rafforzare l’Insegnamento delle Scienze Regionali nell’Università Italiana”, Scienze Regionali, Italian Journal of Regional Science, 15(2), pp. 133-136
Musolino D. e Rota F. (2015), “Le scienze regionali tra specialismo e interdisciplinarietà: verso una mappatura degli insegnamenti”, EyesReg, 5(1)
Senn L. (2016), “Insegnamenti Regionalistici: Domanda Formativa e Mondo del Lavoro”, Scienze Regionali, Italian Journal of Regional Science, 15(2), pp. 129-132
at 18:45
Ho letto con grande interesse curiosità questa nota di R. Capello e condivido interamente le analisi e le conclusioni a cui arriva. Io direi esplicitamente che il malfunzionamento delle Regioni, assieme ad una rinuncia generalizzata a alla formazione di una visione strategica dei nostri territori, assieme al generale crollo dell’investimento nella Università siano alla base della crisi delle nostre discipline. E le Regioni diventano meri gestori di fondi europei e, peggio, il ministero diventa il controllore burocratico della correttezza del loro uso.
MI sembra molto grave quello che tu osservi (e che faccio mio) che le discipline emergenti siano frequentemente restie a riconoscere la paternità di certi concetti e mi sembra grave, non per una questione di principio, ma perché secondo me significa rinunciare a sviluppare sulla conoscenza delle stesse una critica costruttiva.
Mi piace che tu chiami in causa l’Urbanistica o, meglio, quello che io non ho vergogna di chiamare Pianificazione Territoriale il cui compito potrebbe ancora essere quello di disegnare processi che conducano verso obiettivi condivisi seppure dinamici, perseguendo forme efficaci di governance.
Condivido l’istanza di un rilancio, ma resto deluso che tu, dopo un’analisi così attenta, non proponga soluzioni.
E, allora ci provo io che -data la giovane età – sono meno saggio e più imprudente di te.
Il problema: sembra quello di una carenza di formazione approfondita sui nostri temi e le prospettive di sviluppo dell’Università non vanno nella direzione di porvi rimedio, preferendo, nei diversi corsi di studio, rinforzare quelli già tradizionalmente più riconosciuti, con buona pace della sventolata integrazione disciplinare e di una scarsissima sensibilità al diritto ad un approccio razionale al piano come componente della decisione pubblica che preservi i principi di equità, efficienza e sostenibilità ambientale.
L’obiettivo allora è quello di mettere in piedi azioni finalizzate alla crescita sia della sensibilità al diritto al piano che ai principi le metodologie e le tecniche che l’analisi regionale ha sviluppato nell’ultimo secolo.
Assodato che fra i corsi universitari non ci sono spazi e risorse la azione da sviluppare potrebbe essere l’esito di un impegno dell’Aisre nella istituzione di un master (uno solo) che, in un ciclo annuale o, in futuro, se possibile biennale, sviluppi questo tipo di formazione e contribuisca ad accrescere la sensibilità al tema, curando con la massima attenzione lezioni e stages, con relativi progetti, presso appropriate Amministrazioni.
So bene che in un panorama di formazione post universitaria spesso ha sopravvissuto come ammortizzatore sociale per allievi e docenti e, talvolta, come occasione di pessimo clientelismo, l’impegno per la concezione la realizzazione e la governance, è un impegno pesantissimo, ma so anche che si può fare
at 18:52
bene grazie, per sicurezza prendere nota di questo secondo indirizzo: [email protected]