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L’emigrazione di massa italiana fra Ottocento e Novecento: aspetti economici e sociali del caso piemontese

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di: Elena Di Salvo

EyesReg, Vol. 11, N. 2, Marzo 2021

«C’era della gran miseria! Si… si… qualcosa da mangiare lo trovi, ma credimi,
c’era della gran miseria ed era grazie se si poteva trovare di andare via, all’estero!» (Vigliermo, 2006, p. 43)

Il fenomeno migratorio in Italia ha radici millenarie. Si è deciso, in questo lavoro, di approfondirlo partendo dal 1860 per la penisola italiana, e dal 1850 relativamente al solo Piemonte (1).

Tra il 1861 e il 1940 il numero complessivo degli espatri fu di 20 milioni circa, un dato molto significativo tenendo conto che nel 1901 la penisola italiana contava 33 milioni di abitanti.

Si trattò all’inizio, prima del 1860, di una emigrazione essenzialmente stagionale e furono le regioni dell’Italia settentrionale, in quegli anni, a dare circa il 70 per cento dell’intero esodo. Successivamente, a questa emigrazione temporanea, si affiancò un tipo di emigrazione che per molto tempo era rimasta tipica solo delle popolazioni liguri, quella transatlantica.

Mancava all’epoca sia una regolamentazione nazionale che una tutela internazionale del lavoratore migrante.

I movimenti migratori in uscita dall’Italia fra Ottocento e Novecento e le cause dell’emigrazione di massa.

La storia dell’emigrazione italiana permette di individuare quattro fasi:

  • Prima fase: dal 1876 al 1900;
  • Seconda fase: dai primi del Novecento alla Prima guerra mondiale;
  • Terza fase: in coincidenza con il periodo tra le due guerre;
  • Quarta fase: dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Sessanta.

Questo esodo di massa dall’Italia scaturì da fenomeni economici e sociali di ordine interno ed internazionale, quali: l’unificazione nazionale, gli sviluppi della rivoluzione industriale, la crescita febbrile del capitalismo europeo e l’apertura di nuovi territori oltremare che produssero, allo stesso tempo, fenomeni di espulsione e di attrazione di forza lavoro. Una delle motivazioni decisive fu il differenziale salariale: chi emigra beneficia infatti dei più elevati livelli salariali offerti dal paese di destinazione (chi rimane, invece, è “ricompensato” da incrementi salari legati al nuovo equilibrio del mercato del lavoro che si determina, ovvero l’eccesso di domanda di lavoro). 

Circa il 40% della popolazione italiana era vicino o sotto la soglia della povertà assoluta. L’aspettativa di vita alla nascita era di circa trent’anni; quattro italiani su cinque erano analfabeti. Nel 1861 il reddito pro-capite, a parità di potere d’acquisto, era più o meno la metà di quello della Gran Bretagna e circa i due terzi di quello della Francia. Ma soprattutto vi era una grande disparità nella distribuzione del reddito, anche se il divario Nord-Sud era probabilmente meno pronunciato di quanto non diventerà in seguito. Nel 1911 infatti cominciarono a delinearsi i contorni di una nuova geografia economica del paese: nelle tre regioni del “triangolo industriale” il Pil pro-capite aumentò sensibilmente, mentre in quelle del Mezzogiorno cominciò a declinare; nel 1921 questa macroarea del paese poteva già essere considerata un’area in ritardo di sviluppo.

Tra il 1851 e il 1914 il mercato del lavoro diventò globale e insofferente ai confini statali. Le persone poterono emigrare grazie a due fattori: la libera circolazione della manodopera, che creò, per la prima e forse l’ultima volta, un mercato internazionale del lavoro; e i progressi tecnologici nel campo dei trasporti. In quegli anni, infatti, si compì la rivoluzione dei trasporti: ferrovie e navi a vapore sempre più veloci resero il mondo sempre più piccolo, e permisero ai lavoratori di viaggiare speditamente e a prezzi in continuo ribasso.

Le rimesse economiche: Una fantastica pioggia d’oro.

Fu così definito, da diversi osservatori del tempo, l’afflusso di capitali verso l’Italia, a cavallo tra Otto e Novecento, generato dalle rimesse dell’emigrazione. Una corretta stima delle stesse è quanto mai complessa e quella dei dati ufficiali è sicuramente una stima per difetto, dato che si basa sulla contabilizzazione delle sole rimesse “visibili”, vale a dire i vaglia internazionali postali, consolari e bancari. Tra il 1902 e il 1905 la media annuale delle rimesse “visibili” fu di oltre 160 milioni di lire correnti.

Una grossa parte delle rimesse erano di fatto “invisibili”, vale a dire: i risparmi affidati ad amici e parenti, che rimpatriavano, o ad agenti di cambio e banchieri privati. Tale afflusso di denaro si distribuì, in particolare, nelle zone più marginali e povere del paese. L’arrivo di una somma di denaro costituiva agli occhi dei compaesani uno degli argomenti più convincenti per espatriare.

Le rimesse, oltre a migliorare il tenore di vita delle famiglie degli emigranti, soprattutto delle regioni settentrionali, aumentarono la disponibilità valutaria aurea dell’Italia e permisero il decollo dell’industrializzazione.

Figura 1. Rapporto tra rimesse ed emigranti dal 1876 al 1915

Il commercio estero

Un effetto virtuoso dello sviluppo dell’emigrazione fu l’aumentare progressivo e considerevole del traffico marittimo dei principali porti italiani. Nel 1902, crebbero le richieste di generi di consumo “popolare”, ad uso e consumo quasi esclusivo degli emigrati italiani, specialmente verso gli Stati Uniti, ed in particolare: “in vini, spirito, bevande alcoliche, paste alimentari, legumi, formaggi, frutta, tabacchi, droghe, per circa 40 milioni di lire.

Dal 1862 al 1939 le esportazioni crebbero in maniera più rapida delle importazioni. La crescita degli scambi commerciali fu molto disomogenea durante le diverse fasi, ma entrambi i flussi crebbero più rapidamente nel primo periodo post-unitario, rallentando a partire dalla guerra commerciale con la Francia, nel 1887 e sino al 1914.

L’emigrazione piemontese

L’emigrazione piemontese fu strettamente legata alla struttura geografica dello stato sabaudo, prima e all’indomani dell’Unità d’Italia.

La liberalizzazione commerciale, voluta anche da Cavour, nel tempo provocò problemi legati alla non protezione dei prodotti piemontesi, sia agricoli che industriali, che porteranno le piccole fabbriche o aziende agricole al fallimento, costringendo gli operai ad emigrare. L’emigrazione verso la città si trasformerà in emigrazione temporanea e poi permanente verso l’estero.

Il Piemonte, nel periodo 1850 – 1920, è stata la realtà, da cui sono partiti più immigrati. Dal 1876 al 1913 partirono 1.540.000 piemontesi, con una pausa durante il primo conflitto mondiale, ed una ripresa dal 1920.  Anche nel periodo tra le due guerre il Piemonte continuò ad essere la prima regione di partenza. Successivamente, il flusso si indebolì a favore delle correnti migratorie provenienti dal Sud.

Vi fu uno spopolamento delle vallate piemontesi: da quelle occidentali il 13,4% della popolazione, pari a 11.154 unità, emigrò dal 1871 al 1880, e negli anni successivi, fino al 1900, emigrarono 18.313 persone; dalle basse valli la perdita totale fu di 92.088 abitanti su una popolazione media di 335.000 unità.

Le due mete preferite erano, in Europa, la Francia; ed oltre oceano l’Argentina, quella che per i piemontesi era “la Merica”.

Francia

fu la vicinanza geografica, etnico-culturale e linguistica a far sì gli che dalla metà dell’ ‘800 l’immigrazione italiana in Francia divenne un fenomeno di massa. Un censimento sulle comunità straniere residenti del 1851 stabilì che 63.000 residenti erano italiani, in primo luogo piemontesi, seguiti dai toscani, lombardi, veneti.

Il numero degli italiani passò a 240.000 nel 1881 fino ad arrivare a 330.000 nel 1901, divenendo la première nationalité étrangère dans l’Hexagone. Le città a maggiore immigrazione furono: Parigi, Lione, Marsiglia, Nizza e Grenoble; ancora oggi sono le città con la maggior concentrazione di comunità italo-francesi. 

Argentina

Nel 1810 aveva 720.00 abitanti con una densità territoriale molto bassa. Era un paese con vastissime zone disabitate, in cui la terra era sovrabbondante ma scarseggiava la manodopera. L’Argentina aveva la forza di attrazione della terra promessa. Dai dati demografici dell’epoca, si evince che “i sardi” (originari e sudditi del Regno di Sardegna), presenti nel 1838, erano 8.000, e molti di questi si occupavano di commercio, sotto la protezione della bandiera argentina. Nel 1854 gli italiani erano già più di 15.000.

Per quanto riguarda le zone di provenienza, fra le province piemontesi quella di Cuneo fornì il contributo maggiore: dalla sola provincia Granda, tra il 1876 e il 1915, ben 90.759 persone vi si trasferirono senza fare più ritorno in patria. Seguono le province di Alessandria, Torino e Novara. Gli italiani erano molto presenti in tutti i settori occupazionali: dalla coltivazione delle terre all’industria, al commercio, all’edilizia e ai servizi.

Il Piemonte è la regione che ha fornito il maggior numero di emigranti in assoluto. Il periodo di maggior boom emigratorio fu quello tra il 1881 e il 1900, quando più di un piemontese su quattro la scelse come destinazione. Nel 1869, il 59% di tutti gli italiani viveva a Buenos Aires. 

Figura 2. Emigrazione continentale e transoceanica dal Piemonte 1876-1930

Sesso, professione e zone di provenienza

Fino ai primi del Novecento gli uomini principalmente emigrarono in Francia per svolgere mestieri itineranti, quasi sempre a carattere periodico o stagionale, quali venditori, suonatori ambulanti e manodopera edilizia.

I piemontesi che si mossero verso le Americhe furono, all’inizio, piccoli agricoltori e montanari alla ricerca di terra o lavoro. Alcune di queste partenze si caratterizzavano per la specializzazione lavorativa; furono tagliapietre e scalpellini che parteciparono alla costruzione di grandi opere, non solo nelle Americhe (il Canale di Suez e la prima diga di Assuan in Africa), ma anche operai tessili.

In particolare, dal Canavese, partirono per cercare fortuna muratori o minatori (questi ultimi erano molto apprezzati perché ricchi di esperienza fatta nelle miniere della Sardegna, scelte, come opportunità lavorativa, a seguito della scarsezza dei guadagni nelle miniere delle nostre alpi). Da Pont Canavese e da altri paesi delle Valli dell’Orco e Soana, emigrarono gli artigiani del rame, i cosiddetti magnini, gli spazzacamini, i minatori ed i cercatori d’oro dell’Orco. Nella loro emigrazione stagionale spesso arrivarono fino in Spagna, in Germania, anche ai Balcani, dove il loro mestiere era ricercato ed apprezzato, ripercorrendo vie battute già dai loro padri. Alcuni fecero fortuna impiantando piccole botteghe e negozi di casalinghi, altri decisero di fermarsi per lavorare nelle fabbriche come operai specializzati.

Il Canavese è un caso particolare. Nonostante fosse un territorio più sviluppato rispetto ad altre parti del Piemonte e del Regno Sabaudo, le crisi economiche della metà dell’Ottocento, lo sviluppo demografico, la concorrenza economica dei prodotti stranieri, costrinsero molti a lasciare i loro borghi natii, soprattutto nelle zone più rurali. L’economia agricola canavesana, e quindi anche eporediese, di quei tempi era basata sulla piccola proprietà che, per effetto delle divisioni ereditarie, diventava insufficiente per soddisfare le più elementari necessità esistenziali. L’emigrazione nel Canavese arrivò a svuotare intere borgate premontane, come Ingria, a pochi chilometri da Pont Canavese, che vide la sua popolazione scendere dalla 1.201 unità del 1901 alle 398 alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Il fenomeno migratorio cesserà del tutto in quegli anni, quando si affermerà l’industrializzazione del territorio. Di seguito la Tabella 1 relativa alle professioni ed al sesso degli emigranti dal Canavese, oltre i 15 anni, e riporta i dati degli anni 1910-1911.

Tabella 1. Professioni e sesso degli emigranti dal Canavese di età superiore ai 15 anni (1910-1911).

Fonte: Ferdinando Balbo volume Emigrazione Canavesana appunti, 1912

L’emigrazione è stata a lungo descritta come un’esperienza maschile, facendo rimanere le donne sullo sfondo, come una presenza silenziosa o passiva; in realtà la vita delle donne veniva profondamente mutata dall’esperienza migratoria, sia se questa le coinvolgeva in prima persona, sia se rimanevano a casa, a seguito di una partenza di un familiare.

I flussi migratori femminili (Tabella 2), da tutte le zone montane piemontesi, si intensificarono a cavallo del cambio del secolo: le donne si recarono sempre più numerose in Francia per lavorare come cameriere, lavandaie e stiratrici nei centri di villeggiatura della Costa Azzurra e della Savoia o per svolgere i più svariati lavori agricoli in Provenza. Le fanciulle emigrarono, inoltre, per lavorare nelle filande in Francia e in Svizzera: erano impieghi stagionali e a cottimo, che si svolgevano per lo più in ambienti malsani, anche per 16 ore al giorno. Dal Piemonte, come da altre regioni del Nord e Sud Italia, migliaia di giovani donne si spinsero fin in Egitto per occuparsi come balie, a seguito di decisione presa dal marito o dalla suocera.

Molti i religiosi, uomini e donne, che fin dal 1885 emigrarono in Francia o in altri paesi europei ed oltre oceano, sia per fornire assistenza socio religiosa ai concittadini espatriati, sia per compiere il loro ministero.

Tabella 2. Professioni raccolte per grandi gruppi e per sesso, nel periodo 1877 – 1918 in Piemonte

Similitudini con l’immigrazione dei giorni nostri

Le similitudini del fenomeno di massa storicamente osservato in Italia e in Piemonte, con l’immigrazione in Italia degli ultimi decenni sono molte.

Ci si stupisce dei trafficanti di uomini e dei morti in mare, quando agenti, sub agenti e mediatori, anche in altre epoche, agivano in un contesto di illegalità, sfruttando la disperazione delle fasce più indigenti della popolazione (Iaquinta, 2002).

Ci si sente a volte migliori e superiori di chi arriva, ma non si deve dimenticare che gli italiani hanno vissuto episodi drammatici di discriminazione in Europa, oltre ad essere considerate persone pericolose o moralmente inadatte in aree del mondo come l’America.

Riguardo a quella fantastica pioggia d’oro che salvò l’economia italiana di inizio secolo, oggi la ritroviamo, in uscita dal nostro Paese (e non solo), generata dagli immigrati che, grazie alle loro rimesse, aiutano l’economia dei paesi di provenienza. Nel 2018, 689 miliardi di dollari a livello globale sono stati inviati nei paesi di origine dai migranti (IOM – UN MIGRATION, 2019).

L’emigrazione è sì fonte di ricchezza per i paesi di provenienza degli immigrati, ma costituisce anche una perdita, se si considerano le caratteristiche lavorative ed il valore aggiunto che i giovani potrebbero realizzare se fossero occupati nel loro paese di origine.

Pur costituendo un momento storico particolare nella storia recente italiana, l’analisi di quell’emigrazione di massa restituisce molti punti di contatto con quello che le diverse nazioni stanno vivendo in questi ultimi anni.

Non dimenticare da dove veniamo, chi eravamo, cosa abbiamo vissuto, è la sola possibilità per evitare facili speculazioni e errori nell’interpretazione del fenomeno.

Elena Di Salvo

Bibliografia

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Note

(1) L’articolo è basato sulle ricerche e analisi storiche svolte dall’autrice per la sua tesi di laurea Magistrale (Di Salvo, 2019).

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