di: Giuliana Caruso, Elisabetta Mallus, Emanuela Marrocu e Raffaele Paci
EyesReg, Vol. 10, N. 6, Novembre 2020
Introduzione
Il dibattito economico ha sottolineato il ruolo positivo che il capitale umano e l’innovazione tecnologica svolgono nei processi di sviluppo, anche a livello locale. L’università, e in particolare quella pubblica, è l’istituzione deputata a formare le competenze più avanzate, a sviluppare la ricerca di base e l’innovazione tecnologica e a diffonderla nella società e tra le imprese. È quindi importante, anche per le dirette implicazioni di politica economica, misurare la capacità delle università di “produrre” insegnamento e ricerca tenendo conto, allo stesso tempo, del contesto territoriale in cui operano.
Il tema dell’efficienza diventa ancora più rilevante in un sistema universitario reso più competitivo dalla riorganizzazione della didattica introdotta dal processo di Bologna. Gli atenei sono ormai in concorrenza tra loro e si contendono le risorse pubbliche scarse e decrescenti, a partire dal Fondo di Funzionamento Ordinario (FFO). Inoltre, si è diffusa una maggiore attenzione alla ricerca scientifica e alla valutazione dei suoi risultati tramite la Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) che determina anche una quota del FFO.
L’obiettivo del presente lavoro è l’analisi dei livelli di efficienza delle università pubbliche in Italia utilizzando una procedura a due stadi. Nel primo stadio utilizziamo il metodo non parametrico della Data Envelopment Analysis (DEA) per calcolare il punteggio di efficienza interna degli atenei, considerando congiuntamente come output l’attività didattica e quella di ricerca. Nel secondo stadio esaminiamo, attraverso un’analisi econometrica, come questo livello di efficienza interna viene influenzato dal contesto socioeconomico del territorio nel quale l’ateneo è collocato.
Un contributo rilevante del nostro lavoro risiede nella grande attenzione alla corretta specificazione degli output e degli input del processo produttivo, e nel tenere ben distinte queste variabili interne da quelle, di contesto, che influenzano esogenamente l’efficienza degli atenei e che sfuggono al controllo delle università. È questo un aspetto molto delicato, ma spesso trascurato nella letteratura, per garantire una corretta definizione della funzione di produzione delle università ed ottenere quindi stime attendibili dalla DEA.
Sono numerosi gli studi sull’efficienza del sistema universitario in Italia basati su tecniche non parametriche. Alcuni si sono concentrati sulla sola attività didattica (Guccio et al. 2016, Agasisti e Dal Bianco 2009), mentre altri hanno analizzato, più correttamente, la produzione congiunta dei due output, esaminando anche gli effetti del contesto locale sui livelli di efficienza (Barra et al. 2018, Di Giacomo e Silvi 2019).
Output e input del processo produttivo
Il Ministero dell’Università e della Ricerca riconosce complessivamente in Italia 97 “istituti di alta formazione”. Tra questi, noi consideriamo i soli atenei pubblici, escludendo così le 30 istituzioni private (tra cui 11 università telematiche) che hanno diverse finalità e caratteristiche di funzionamento (un raffronto dell’efficienza delle università pubbliche e private in Italia è proposto da Agasisti e Ricca 2016). Abbiamo inoltre escluso le istituzioni pubbliche con obiettivi specifici, quali le Università per stranieri, le sei Scuole superiori ad ordinamento speciale e tre piccole università statali, per le quali non sono disponibili i dati sulla ricerca. La nostra analisi si è pertanto concentrata su un insieme omogeneo di 56 università pubbliche, che rappresentano oltre il 90% del totale delle istituzioni universitarie in termini di studenti iscritti, laureati e personale docente.
È universalmente riconosciuto che le due funzioni fondamentali e inscindibili dell’università sono l’insegnamento e la ricerca scientifica. Didattica e ricerca costituiscono quindi due beni generati congiuntamente dagli stessi input, e pertanto il modello deve necessariamente includere i risultati di entrambe le funzioni. Seguendo una letteratura consolidata, come indicatore dell’attività didattica abbiamo utilizzato il “numero di laureati” per anno di conseguimento della laurea, ossia una misura molto generale che rappresenta in modo completo il risultato produttivo dell’ateneo. Il secondo output è quello della ricerca scientifica. La letteratura ha ampiamente dibattuto la scelta degli indicatori più adatti per valutare le attività di ricerca – articoli scientifici, misure bibliometriche, finanziamenti alla ricerca – e spesso la scelta finale è stata dettata dalla disponibilità dei dati. In questo lavoro abbiamo utilizzato il “numero di articoli scientifici pubblicati su rivista”, che costituiscono il prodotto della ricerca più rilevante nella gran parte delle aree disciplinari. Il vantaggio di questo indicatore è che può essere raccolto direttamente dalle banche dati Iris (Institutional Research Information System) dei singoli atenei ed è disponibile per un lungo arco temporale.
Nel modello base consideriamo quattro input: le risorse finanziarie, il personale docente, quello tecnico amministrativo (TA) e gli studenti. Le risorse finanziarie disponibili sono misurate dalla “spesa totale”, che comprende sia la spesa corrente che quella in conto capitale. I dati su entrate e spese delle singole università statali sono stati forniti dal Nucleo Centrale dei Conti Pubblici Territoriali mediante un’elaborazione su dati SIOPE, la banca dati della Ragioneria Generale dello Stato. Per quanto riguarda il personale universitario abbiamo considerato sia il totale dei docenti (ordinari, associati e ricercatori a tempo indeterminato e determinato) sia il totale del personale TA, in quanto entrambe le categorie di dipendenti, pur nella distinzione dei ruoli, svolgono una funzione essenziale per il perseguimento della didattica e della ricerca negli atenei, e quindi vanno entrambi inclusi come input del processo produttivo. Infine, per gli studenti abbiamo scelto di utilizzare il “numero di iscritti al primo anno” (nelle lauree triennali, magistrali e a ciclo unico) in quanto è questo l’indicatore che meglio descrive il flusso annuo degli studenti in entrata che devono poi essere “trasformati” in laureati. Considerando il periodo medio necessario per il conseguimento della laurea, gli studenti vengono considerati con un anticipo di tre anni rispetto ai laureati.
Per valutare la robustezza del modello base sopra descritto abbiamo condotto numerose altre stime DEA. In particolare, per quanto riguarda l’output ricerca, al posto del numero di articoli scientifici, abbiamo considerato, per ciascun ateneo, il voto medio di qualità dei prodotti ottenuto nella VQR. Tra gli input, abbiamo introdotto la “qualità” degli studenti in entrata misurata dal voto di diploma, la qualità delle infrastrutture misurata dal grado di soddisfazione sulle aule espresso dagli studenti nell’indagine di Almalaurea, la complessità della struttura didattica dell’ateneo data dal numero totale di corsi di laurea impartiti nell’università. I risultati in termini di valori di efficienza e di ranking delle università, che per ragioni di spazio non riportiamo in questo lavoro, sono fortemente correlati con quelli qui presentati.
Analisi dell’efficienza con la DEA
Come specificazioni tecniche abbiamo scelto il metodo output oriented con rendimenti di scala variabili che risulta il più adatto nel caso delle università pubbliche (Bonaccorsi et al. 2006, Agasisti e del Bianco 2009, Barra et al. 2018) rispetto all’input oriented e ai rendimenti di scala costanti (Di Giacomo e Silvi, 2019). Infatti, un singolo ateneo cerca di rendere massimi i risultati dell’attività didattica e di ricerca dati gli input disponibili che sono in gran parte determinati da vincoli esterni.
Nel 2010 ben 23 atenei si collocano sulla frontiera di efficienza posta, per comodità espositiva, pari a 100. Si tratta di 11 istituzioni del nord, 6 del centro, 6 del sud. Nella parte bassa della graduatoria si trovano tre atenei delle isole: Cagliari, Messina e Sassari, che mostra il valore più basso (70,7). Il valore medio di efficienza è pari a 92,4, e la deviazione standard è 8,7. Considerando il 2017, si nota una riduzione del numero delle università efficienti (21), un leggero incremento del livello medio (93,6) ed una rilevante flessione della varianza (7). Il sistema universitario italiano mostra dunque una tendenza al miglioramento del livello di produttività accompagnato da una riduzione delle differenze tra atenei.
Il coefficiente di correlazione tra 2010 e 2017 mostra un’associazione positiva (0,47) ma non particolarmente elevata, segno che la distribuzione presenta variazioni significative nel tempo. Se infatti guardiamo la coda della graduatoria del 2017 troviamo all’ultimo posto l’Università di Cassino (75,2) e nelle ultime posizioni si collocano anche altri atenei del centro-nord quali Tor Vergata di Roma, Udine, Firenze insieme ai due della Sardegna. Si può inoltre osservare che tra le 23 università che nel 2010 si collocano sulla frontiera, 6 atenei non risultano più efficienti nel 2017 quando invece raggiungono la massima efficienza 4 nuovi atenei. Ciò indica una discreta variabilità nelle caratteristiche della distribuzione: i ranking si modificano, atenei che partono da condizioni di massima efficienza possono perdere posizioni e viceversa.
I punteggi medi più bassi nel 2010 si riscontrano nelle isole (81) e nel sud (91) mentre gli atenei del nord ovest raggiungono l’efficienza media più alta (96). Nel 2017 si riscontra un netto miglioramento delle università del Mezzogiorno, mentre si riduce sensibilmente il livello di efficienza degli atenei del centro. Una sorta di effetto di convergenza, già osservato nella riduzione della varianza tra i periodi, si riscontra anche esaminando la graduatoria delle cinque migliori e peggiori università per variazione del punteggio di efficienza tra il 2010 e il 2017. La performance migliore è mostrata da atenei che ad inizio periodo erano molto in basso nella graduatoria di efficienza; in particolare il Politecnico di Bari (+ 23 punti percentuali) seguito da altri quattro atenei tutti localizzati nel Mezzogiorno: Napoli Vanvitelli, l’Aquila, Basilicata e Messina. Viceversa, una forte riduzione nei livelli di efficienza si registra per l’università di Cassino (-23 punti percentuali) seguita da altri atenei del centro e nord Italia.
In generale il modello di base con output congiunti mostra un livello medio di efficienza delle università statali italiane molto elevato e persistente. Si osserva anche una tendenza alla riduzione delle differenze di efficienza tra atenei. Questa interessante tendenza alla convergenza può essere il frutto delle specifiche politiche incentivanti che sono state introdotte nei processi di valutazione e finanziamento del sistema universitario quali la quota premiale dell’FFO e lo stesso esercizio di valutazione della qualità della ricerca scientifica.
Gli effetti del contesto territoriale
Anche il processo produttivo delle università, così come avviene per le imprese, viene influenzato dalle caratteristiche dell’ambiente esterno. Pertanto, nel secondo stadio dell’analisi, esaminiamo come le condizioni economiche e sociali del territorio influenzano il livello di efficienza degli atenei calcolato in precedenza con la tecnica DEA.
Vi sono numerosi fattori socioeconomici specifici del territorio dove opera l’ateneo, ma esogeni rispetto alle sue possibilità di controllo, che possono condizionare positivamente o negativamente l’efficienza interna delle università stesse. Pensiamo alle condizioni generali di benessere dell’economia e in particolare al mercato del lavoro. La presenza di una forte disoccupazione locale può spingere gli studenti più bravi ad iscriversi nell’ateneo di un’altra regione dove le opportunità di lavoro sono superiori. In tal modo si può creare una selezione avversa, per cui nell’ateneo del territorio svantaggiato tendono a rimanere gli studenti meno bravi riducendo così la sua produttività. Ed ancora pensiamo a come il contesto sociale condiziona la diffusione delle competenze nella popolazione. I test Invalsi evidenziano fortissime disparità tra il nord e il sud dell’Italia nelle capacità di lettura e di matematica degli studenti della scuola superiore. Ed è ovvio che queste disparità territoriali nelle competenze si ripercuotano anche sulla performance degli atenei locali che non possono tuttavia incidere su questa condizione esogena.
Dato che il Prodotto interno lordo (Pil) è fortemente correlato con gli indicatori del mercato del lavoro (tasso di occupazione e di disoccupazione), nella nostra analisi ci concentriamo su due principali variabili di contesto regionale: il Pil per abitante e la qualità del capitale umano. Questa seconda variabile è misurata dal punteggio medio nelle competenze alfabetiche e numeriche ottenuto dagli studenti del secondo anno della scuola superiore secondaria nei test Invalsi. Anche la distribuzione regionale dei punteggi Invalsi risulta associata alle condizioni economiche della regione stessa. Le regioni con reddito elevato sono quelle con maggiori competenze acquisite dagli studenti (coefficiente di correlazione 0,77 nel 2010 e 0,84 nel 2017) e pertanto nelle regressioni abbiamo incluso i due fattori in alternativa per evitare problemi di multicollinearità.
Nella Tabella 1 presentiamo i principali risultati per i due periodi. Tutte le variabili sono espresse in logaritmi al fine di interpretare i coefficienti come elasticità. Nel 2010 il Pil pro capite influenza in modo positivo e significativo i livelli di efficienza delle università. L’elasticità stimata (0,122), pur non essendo molto elevata, mostra che il contesto economico del territorio produce un impatto positivo sulla produttività degli atenei che operano nella regione. È interessante notare che nel 2017 questa relazione perde la sua significatività. Nel decennio considerato vi è stato un processo di convergenza nel sistema universitario pubblico nel quale le università inizialmente meno efficienti, in generale del sud e delle isole, hanno ottenuto i maggiori incrementi di efficienza. Quindi, pur in presenza di un allargamento dei divari economici tra nord e sud come conseguenza della grande crisi economica, il contesto locale sembrerebbe contare meno nell’influenzare la produttività degli atenei. Le università italiane sono migliorate in risposta alle sollecitazioni provenienti dalle nuove regole (quota premiale FFO, sistema di valutazione della ricerca) e il contesto economico esterno è diventato meno rilevante.
Tabella 1. Livelli di efficienza e fattori di contesto
Nelle regressioni 3-4 abbiamo incluso altri due fattori esplicativi: una dummy per controllare la localizzazione dell’ateneo in un’isola (Sicilia e Sardegna) e una dummy per segnalare se nell’università opera una facoltà di medicina (nel nostro insieme 31 atenei) e quindi un’azienda ospedaliera collegata al sistema sanitario nazionale. Entrambe le variabili presentano un segno negativo e significativo nel 2010. L’essere geograficamente isolati dal resto del territorio nazionale costituisce uno svantaggio rilevante per le università che difficilmente riescono ad attrarre studenti e docenti dall’esterno, e questo le penalizza in termini di premialità del FFO e quindi di risorse finanziarie disponibili; e, di conseguenza, ne soffre la loro efficienza. La presenza della facoltà di medicina ha un effetto negativo sulla produttività degli atenei in entrambi i periodi considerati. La facoltà di medicina, e la conseguente presenza di un’azienda ospedaliera, implica che l’ateneo debba raggiungere un ulteriore obiettivo, ossia l’assistenza sanitaria alla popolazione. Ma non è stato possibile considerare questo output, di difficile misurazione, nella DEA, generando così una relativa sottostima dell’efficienza per quegli atenei dove opera la facoltà di medicina. In generale, la presenza della componente sanitaria nell’ateneo, pur rappresentando una funzione rilevante per tutto il territorio, dal punto di vista dell’efficienza interna costituisce un onere aggiuntivo in termini di risorse umane e finanziarie e quindi riduce la produttività relativa dell’università.
Infine, nelle regressioni 5-6 abbiamo incluso come indicatore del contesto esterno il punteggio medio di competenze alfabetiche e numeriche dei test Invalsi rilevato nella regione in cui è localizzato l’ateneo. Questa misura, definita a livello regionale per gli studenti della scuola superiore, è un’approssimazione della effettiva capacità degli studenti universitari in entrata. Infatti, non tutti gli studenti delle superiori si iscrivono all’università e la propensione alla prosecuzione degli studi presenta forti differenze tra aree geografiche e gli studenti universitari possono provenire anche da altre regioni. Tuttavia, la maggior parte degli studenti si iscrive all’università nella propria regione, e quindi riteniamo che questo indicatore possa rappresentare una proxy attendibile della qualità effettiva del capitale umano in ingresso negli atenei. La variabile risulta positiva e significativa in entrambi i periodi e presenta un’elasticità molto elevata seppure in riduzione (0,8 nel 2010 e 0,4 nel 2017). Pertanto, le università localizzate in regioni dove il livello di competenze acquisite è più alto, in generale il nord, risultano più efficienti.
In sintesi, essere collocati in una regione ricca e con competenze diffuse, e non avere l’onere della componente sanitaria, permette agli atenei di raggiungere più facilmente elevati livelli di efficienza interna. Viceversa, gli atenei che soffrono di isolamento geografico, di condizioni socio-economiche svantaggiate e che sostengono l’assistenza sanitaria presentano un’efficienza interna più bassa rispetto a quanto avrebbero tenendo conto degli effetti penalizzanti di questi fattori esterni.
Un esercizio di simulazione dei livelli di efficienza alla variazione del contesto
Abbiamo visto come il livello di efficienza delle università sia influenzato in modo significativo dai fattori esterni regionali quali le condizioni economiche o le competenze acquisite dagli studenti. E abbiamo anche sottolineato come le condizioni ambientali esterne risultano particolarmente svantaggiose nel caso delle università che operano in condizioni di insularità. Presentiamo quindi nella Tabella 2 un semplice esercizio di simulazione in cui abbiamo calcolato per i due atenei delle città capoluogo delle isole, Cagliari e Palermo, il livello di efficienza nel caso potessero beneficiare delle condizioni di contesto della Lombardia in termini di PIL per abitante e di competenze degli studenti.
Tabella 2. Simulazione dei punteggi di efficienza di due atenei delle isole con variabili di contesto della Lombardia.
Nella parte A, per i due anni 2010 e 2017, abbiamo calcolato la variazione di Pil pro capite necessaria alla Sardegna e alla Sicilia per raggiungere la Lombardia, e l’abbiamo poi moltiplicata per il valore dell’elasticità dell’efficienza al Pil prima stimato; infine abbiamo simulato il miglioramento di efficienza che ci sarebbe stato per i due atenei. Da questo esercizio risulta che, se l’università di Cagliari avesse le condizioni economiche della Lombardia, il suo livello di efficienza aumenterebbe da 75,7 a 83, mentre Palermo salirebbe a 93. Miglioramenti più ridotti si avrebbero nel 2017, dato che l’elasticità dell’efficienza al PIL risulta più bassa. Aumenti analoghi di efficienza si ottengono nel quadro B, simulando in Sardegna e Sicilia il livello di competenze della Lombardia. In questo caso il miglioramento della produttività deriva in gran parte da un’elasticità dell’efficienza alle competenze molto elevata (0,8 nel 2010 e 0,45 nel 2017) piuttosto che dal divario di competenze che risulta più contenuto (tra il 13% e il 17%). Il contesto in termini di minori competenze diffuse risulta rilevante e quindi penalizzante per le università isolane anche a fine periodo.
Conclusioni
La stima DEA della funzione di produzione ci ha permesso di calcolare i livelli di efficienza interna degli atenei pubblici in Italia, che mostrano un buon punteggio medio e una tendenza nel tempo alla convergenza verso l’alto, in particolare per il miglioramento di produttività degli atenei del Mezzogiorno. Il secondo stadio dell’analisi ha poi evidenziato come l’efficienza interna sia influenzata in modo significativo dalle condizioni sociali ed economiche che caratterizzano il territorio nel quale l’università opera. Gli atenei localizzati nelle regioni ricche e con competenze diffuse traggono vantaggio dalle condizioni esogene favorevoli, e mostrano livelli di efficienza interna più elevati. Il contrario avviene per le università che operano in condizioni di isolamento geografico e di svantaggio socioeconomico.
Questi risultati hanno importanti implicazioni di politica economica, in particolare per quanto riguarda la suddivisione del FFO. Una parte rilevante e crescente del finanziamento pubblico (attualmente pari a circa il 28% del totale) viene legato, giustamente, alle performance degli atenei in termini di ricerca scientifica (VQR) e didattica (regolarità negli studi, capacità di attrazione). Tuttavia, il riparto del finanziamento statale non tiene nel debito conto il forte impatto che il contesto territoriale causa sulla produttività interna delle università. Se questa perequazione per le condizioni territoriali non avviene, allora si alimenta pericolosamente un circolo vizioso: meno risorse alle università che operano nelle aree in ritardo di sviluppo significa minore capacità locale di produrre capitale umano e innovazione tecnologica, e ciò peggiora ulteriormente le condizioni socioeconomiche locali. Queste potrebbero risentire, inoltre, degli effetti determinati dalla pandemia dovuta al Covid-19, che potrà compromettere anche le capacità di apprendimento degli studenti a causa della “disuguaglianza digitale” delle famiglie. Un meccanismo premiale equo e oggettivo deve tener conto che fare “buona università” a Cagliari o a Palermo è oggettivamente più difficile che non farla a Milano.
Giuliana Caruso, CRENoS
Elisabetta Mallus, Nucleo CPT Regione Sardegna
Emanuela Marrocu e Raffaele Paci, Università di Cagliari e CRENoS
Riferimenti bibliografici
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