Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Aree deboli e politiche di sviluppo: che cosa possiamo attenderci?

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di: Ugo Fratesi

EyesReg, Vol.10, N.1, Gennaio 2020: Numero Speciale “Nuove sfide per lo sviluppo delle aree interne

All’ interno dei paesi avanzati, e in Italia in particolare, le aree più deboli dal punto di vista economico sono state sottoposte a tre grandi sfide globali che le hanno colpite in modo particolare e pongono ulteriormente a rischio il loro sviluppo futuro.

Queste sfide possono essere ricondotte a tre grandi processi che non hanno certo origine in queste aree ma che su di esse hanno esercitato un’azione particolarmente intensa e prevalentemente negativa. Innanzitutto la sfida della globalizzazione, che ha creato mercati internazionali sostanzialmente integrati non solo per quello che riguarda i beni finali ma anche per quello che riguarda beni intermedi e le catene produttive e con una divisione in fasi sempre più piccole all’interno della Global Value Chain (Gereffi, 2018), ciò accompagnato dall’aumento della mobilità dei servizi, dei capitali, e ai processi di delocalizzazione, così che non è più possibile per le regioni più deboli sopravvivere grazie alla chiusura (Capello et al., 2011).

Il secondo processo è quello della diffusione delle nuove tecnologie. I cicli tecnologici da tempo vanno accorciandosi e, in particolare, ci sono alcune rivoluzioni all’orizzonte che riguardano il modo di interagire tra persone, tra macchine e tra macchine e persone che potenzialmente possono cambiare lo scenario produttivo se non anche le nostre società (Schwab, 2017).

Infine, la crisi economica iniziata ormai più di un decennio fa, che per molti aspetti non è mai veramente terminata in Italia e che ha comportato e ancora comporta un crollo degli investimenti, soprattutto pubblici, il calo della domanda interna, il calo della domanda pubblica determinato dall’austerity, il calo del credito bancario (nonostante i tassi bassi) e degli investimenti privati, nonché una serie di vincoli all’azione pubblica.

Le aree più deboli hanno dunque pagato la presenza di vari fattori di vulnerabilità, quali le limitate economie di agglomerazione, o talvolta la loro dipendenza da poche grandi industrie o da specifiche produzioni, o ancora la poca sinergia dei loro sistemi produttivi con quelli di ricerca innovazione ed istruzione, con la conseguente presenza di sistemi di imprese non in grado di stare al passo con l’evoluzione tecnologica.

Per definizione, inoltre, le aree più deboli sono tali in quanto poco dotate di capitale territoriale e quindi di tutti quei fattori che possono aiutarne lo sviluppo nel lungo periodo anche se di determinati fattori quali il capitale naturale possono essere particolarmente ricche.

E’ ormai noto che alcune regioni sono state in grado di resistere alle sfide della crisi meglio delle altre, però la letteratura sulla resilienza territoriale identifica una lunga serie di fattori che influenzano positivamente la resilienza territoriale che sono, purtroppo, molto simili a quelli che ne influenzano la competitività, trattandosi di aspetti quali la presenza di capitale umano, buoni modelli di governance, la specializzazione in fasi elevate (Di Caro e Fratesi, 2018), tutti fattori scarsi nelle aree deboli. Né sembra che la protezione dell’economia in quanto tale abbia giovato nei periodi di crisi andando ulteriormente a discapito delle aree più deboli che erano in passato protette (Fratesi e Rodrìguez-Pose, 2016).

La resilienza sembra dunque e soprattutto legata alla presenza e all’investimento in fattori di capitale territoriale meno mobili di altri (Fratesi e Perucca, 2018) in quanto con i processi di globalizzazione ed innovazione tecnologica anche fattori che prima potevano essere considerati poco mobili, quali il capitale umano, hanno radicalmente incrementato la loro rapidità di spostamento nello spazio.

Ogni politica di sviluppo per le aree più deboli non può prescindere da un miglioramento, o upgrading, del livello funzionale svolto nell’area. Tale upgrading può passare tramite vari processi che in realtà sono collegati quali l’attrazione di investimenti anche dall’estero, i cambiamenti di specializzazione, i processi innovativi lo spostamento in funzioni diverse della catena del valore, tutti fenomeni che necessitano però dalla presenza di un buon capitale territoriale, in particolare di capitale umano, e di politiche adeguate (Affuso et al., 2011; Fonseca e Fratesi, 2017).

I fenomeni attualmente in corso non sembrano andare in una direzione favorevole alle aree più deboli: i processi di reshoring che si sono messi in moto negli ultimi anni sembrano privilegiare le aree core e non quelle deboli dei paesi sviluppati e anche i mutamenti legati all’industria 4.0 sembrano essere potenzialmente più positivi per quelle regioni dove il livello tecnologico e di competitività sono maggiori.

Gli stessi investimenti esteri tendono ad essere un fenomeno cumulativo nel quale è più facile attrarre investimenti per quei luoghi dove ce ne erano già (Mariotti et al., 2010).

Che cosa possiamo aspettarci? Sicuramente non che le cose tornino come prima dei tre fenomeni elencati all’inizio.  C’è evidenzia che la struttura insediativa del nostro paese, essendo nata per soddisfare esigenze economiche e politiche che oggi non esistono più e si trova oggi ad essere inefficiente (Quaini, 1973; Morettini, 2019; Accetturo et al., 2019). E anche la strategia di portare nuove comunità, per esempio di immigrati, in vecchi luoghi può rigenerarli dal punto di vista economico e sociale ma al tempo stesso trasformandoli in qualcosa di diverso e quindi non preservandone veramente l’identità.

La principale politica di sviluppo economico regionale che si è imposta negli ultimi anni ovvero quella della smart specialization si basa su presupposti (quali embeddedness, relatedness e connectivity) che nelle aree più deboli solo carenti per cui, allorquando tutte le regioni sfruttino al meglio le loro potenzialità, ciò sarà sicuramente positivo da un punto di vista aggregato macroeconomico ma non ridurrà le disparità considerando che le potenzialità sono diverse per diversi territori.

Serve quindi un approccio più pragmatico e meno deliberatamente ottimista allo sviluppo delle aree più deboli, per le quali lo sfruttamento delle risorse endogene difficilmente sarà sufficiente, per esempio accettando politicamente l’idea che tali aree comunità non possano sostenere con le proprie risorse endogene la fornitura di servizi di base.  È ovvio che se i giovani lasciano le aree interne per andare a lavorare nelle città sarà impossibile per gli anziani rimasti pagare i servizi locali con il gettito della tassazione locale ma, al tempo stesso, se si tagliano i servizi la crisi e la migrazione non possono che accelerare. Il taglio dei servizi e della manutenzione, poi, può portare a fenomeni di land degradation, perdita del patrimonio culturale e deterioramento del patrimonio architettonico.

Non è quindi assurdo che le persone che vivono in città si facciano in qualche modo carico del mantenimento di quei luoghi nei quali volentieri vanno a trascorrere parte del loro tempo libero.

Al tempo stesso è ovvio che va effettuata una gestione sensata ed oculata dei servizi stessi per i quali spesso il sistema tenta di conservare una capillarità molto superiore a quella nella quale si svolge effettivamente la vita delle persone, che si spostano spontaneamente da un luogo all’altro per i loro servizi privati e di intrattenimento.

Molte delle strategie di sviluppo locale che sono state evidenziate in letteratura possono essere utili alle aree più deboli, come lo sfruttamento dell’economia residenziale e della spesa dei pensionati, delle risorse naturali, ambientali e culturali, dei prodotti locali anche mediante la creazione di brands, lo sfruttamento della diversità e delle specificità, ecc.

E’ però alquanto improbabile che si possa invertire un trend così forte è consolidato a vantaggio delle aree più forti con progetti di sviluppo locale, in quanto scontiamo dei processi centripeti consolidati che solo in certe fasi si sono interrotti (Camagni et al., 2020). La stessa strategia nazionale per le aree interne (SNAI) prevede interventi selettivi piuttosto che generalizzati a tutte le aree che si qualificano come tali.

Una soluzione efficace su larga scala e nel lungo periodo potrà quindi arrivare dallo sviluppo tecnologico e sociale o, altrimenti, non avrà veri effetti di inversione dei trend. Per esempio, è doveroso portare una connessione ad internet veloce ed affidabile in tutti i luoghi, in quanto questo ormai è un requisito imprescindibile di qualunque attività, ma non è pensabile che ciò sia sufficiente a colmare i divari nell’uso della tecnologia.

Peraltro, dobbiamo considerare che l’investimento nelle tecnologie attuali può essere troppo costoso ma nuove tecnologie possono permettere di effettuare salti che bypassino la tecnologia precedente, si pensi ad esempio a tutti quei luoghi del continente africano dove si è completamente saltata la fase delle linee fisse telefoniche per passare direttamente alla telefonia mobile, che oggi svolge anche il ruolo di strumento privilegiato di pagamento, anche qui rendendo non necessario un sistema bancario tradizionale.

Anche dal punto di vista sociale è difficile che si possono invertire i trend a meno di cambiamenti significativi nell’organizzazione, per esempio con implementazione di modelli di telelavoro diffusi e non puramente sperimentali.

In conclusione, possiamo quindi pensare alla sfida delle aree più deboli come a una sfida che riguarda non soltanto le stesse aree, che nella maggior parte dei casi non potranno farcela con le loro stesse forze, ma l’intero paese che ha interesse a conservare patrimoni che sono collettivi pur essendo localizzati.

Ugo Fratesi, Politecnico di Milano

Riferimenti bibliografici

Accetturo, A., Cascarano, M., de Blasio, G. (2019) Pirate Attacks and the Shape of the Italian Urban System, DEM Working Papers 2019/15.

Affuso, A., Capello, R., Fratesi, U. (2011) Globalization and Competitive Strategies in European Vulnerable Regions, Regional Studies, 45, 5, 657–675.

Capello R., Fratesi U., Resmini L. (2011) Globalisation and Regional Growth in Europe: Past Trends and Scenarios, Berlin: Springer Verlag.

Casi, L., Resmini, L. (2014). Spatial complexity and interactions in the FDI attractiveness of regions. Papers in Regional Science, 93, S1, S51–S79.

Camagni, R., Capello, R., Cerisola, S., Fratesi, U. (2020) Fighting gravity: institutional changes and regional disparities in the EU, Economic Geography, forthcoming, DOI 10.1080/00130095.2020.1717943.

Di Caro, P., Fratesi, U. (2018) Regional Determinants of Economic Resilience, The Annals of Regional Science, 60, 2, 235-240.

Fonseca, M., Fratesi, U. (2017) Regional Upgrading in Southern Europe: A General Framework, in Fonseca, M., Fratesi, U. (eds.), Regional Upgrading in Southern Europe: Spatial Disparities and Human Capital, Berlin: Springer Verlag., pp. 3 – 17.

Fratesi, U., Perucca, G. (2018) Territorial capital and the resilience of European regions, The Annals of Regional Science, 60, 2, 235-240.

Fratesi, U., Rodrìguez-Pose, A. (2016) The crisis and regional employment in Europe: what role for sheltered economies?, Cambridge Journal of Regions, Economy and Society, 9, 1, 33-57.

Gereffi, G. (2018) Global Value Chains and Development: Redefining the Contours of 21st Century Capitalism, Cambridge: Cambridge University Press.

Quaini, M. (1973) “Geografia storica o storia sociale del popolamento rurale?”, Quaderni Storici, 24, 691-744.

Mariotti, S., Piscitello, L., Elia, S. (2010). Spatial agglomeration of multinational enterprises: the role of information externalities and knowledge spillovers. Journal of Economic Geography, 10(May), 519-538.

Morettini, G. (2019) All’ombra dei mille campanili. Dinamiche demografiche di lungo periodo nell’area del cratere sismico del 2016 e 2017, Popolazione e Storia, 2, 2019, 19-42.

Schwab, K. (2017). The Fourth Industrial Revolution, New York: Crown Business.

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