di: Gianfranco Viesti
EyesReg, Vol.9, N.1, Gennaio 2019
Il tema dei “residui fiscali” è oggi di grande rilevanza, anche perché la sua destinazione è alla base delle richieste di “autonomia regionale differenziata” avanzate dalle regioni Veneto e Lombardia (1). Ma che cosa sono i “residui fiscali” e che significato economico e politico-economico hanno (2)?
Il residuo fiscale è una stima, non un dato oggettivo. Essa viene compiuta sottraendo dalla la spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio, l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio. Se la differenza è negativa ciò significa che se quel territorio non facesse parte di una comunità più ampia, potrebbe “permettersi” una spesa maggiore.
Il calcolo dei “residui fiscali”
Il calcolo non è semplice; il metodo non univoco. Può essere realizzato per le sole amministrazioni pubbliche o includendo anche le imprese pubbliche; possono essere utilizzati dati di diversa natura contabile. Il gettito fiscale può essere determinato in misura relativamente agevole, anche se vi possono essere differenze fra il luogo in cui il reddito è prodotto e quello in cui il prelievo è riscosso: ad esempio le aziende petrolifere che lavorano in Sicilia pagano le tasse a Roma. L’attribuzione della spesa è assai più difficile: come spiega molto chiaramente Pisauro (2017): “la spesa pubblica (..) potrà essere attribuita alle regioni (i) in base alla localizzazione dei fornitori di fattori produttivi (destinatari del flusso finanziario che li acquista), (ii) in base alla regione in cui i fattori acquistati vengono fisicamente impiegati dalle Amministrazioni pubbliche per produrre beni e servizi per la popolazione o, ancora, (iii) in base a chi da ultimo beneficia del bene o servizio prodotto. Sebbene i tre criteri possano coincidere (qualora, ad esempio, le Amministrazioni pubbliche affidino a un’impresa laziale i lavori di costruzione di un’università a Roma), è facile immaginare situazioni in cui la localizzazione del fornitore è diversa dal luogo in cui i fattori acquistati verranno utilizzati (qualora sia un’impresa lombarda a ottenere l’appalto per la costruzione dell’università di Roma) e casi in cui quest’ultimo non corrisponde alla localizzazione del beneficio che da tali beni e servizi scaturisce (se l’università di Roma attira studenti da tutto il resto d’Italia)”.
A seconda dei diversi criteri con cui viene realizzata la stima, i risultati sono anche sensibilmente differenti: la tabella 1 (tratta da Pisauro 2017) mostra la comparazione fra i dati Banca d’Italia e quelli ottenuti con elaborazioni sui Conti Pubblici Territoriali (CPT). Vi è un residuo fiscale certamente negativo, in ordine di dimensione, per cinque regioni: Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte e Toscana. Per le otto regioni del Mezzogiorno, l’Umbria e il Friuli Venezia Giulia, il residuo fiscale è certamente positivo. Per le altre (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Liguria, Marche, ed in particolare per il Lazio), l’esito della stima è anche sensibilmente diverso a seconda del metodo utilizzato. A partire dal 2008-09 l’ampiezza dei residui fiscali, positivi e negativi, si è comunque ridotta, anche sensibilmente, a causa del maggiore impatto nel Mezzogiorno delle misure di austerità (Di Caro e Monteduro 2017).
L’azione redistributiva
Il calcolo del residuo fiscale ipotizza però che l’azione dello Stato redistribuisca esplicitamente risorse fra le regioni. Così non è. Ciò avviene esclusivamente per le politiche realizzate in attuazione dall’art. 119.V della Costituzione. Le risorse stanziate a tali fini, che sono prevalentemente in conto capitale; prevalentemente, ma non esclusivamente, destinate al Mezzogiorno. Esse hanno però un peso assai limitato sul totale della spesa pubblica; allo stesso tempo, le maggiori risorse “speciali” hanno al Sud il solo effetto di compensare la minore spesa ordinaria in conto capitale. La spesa in conto capitale pro-capite è omogenea fra Sud e Centro-Nord (Sistema CPT 2018).
Il punto chiave per la politica economica è che la redistribuzione operata dall’azione pubblica non è fra territori ma fra individui. Conviene trarre un’altra, ampia citazione, anche per l’autorevolezza e la chiarezza della fonte, da Pisauro (2017). “Gran parte della redistribuzione tra aree territoriali è semplicemente il risultato dell’interazione tra programmi di spesa di cui i beneficiari ultimi sono gli individui sulla base di caratteristiche che prescindono dall’area di residenza – quali l’età, lo stato di salute, il reddito – e delle modalità del finanziamento di tali programmi. Queste politiche hanno come risultato una qualche redistribuzione tra gli individui. È un risultato ovvio per i programmi di natura esplicitamente redistributiva che trasferiscono dai redditi più elevati a quelli più bassi. (..) Ciascuna di queste politiche determina un residuo fiscale in capo agli individui. I residui fiscali per una regione o per qualsiasi altro territorio sono semplicemente la somma dei residui fiscali degli individui che risiedono in quell’area. (..) Più in generale, le spese che determinano benefici individuali indipendenti dal reddito dei beneficiari, se vengono finanziate con imposte sul reddito, determinano un residuo negativo nelle regioni dove sono maggiormente presenti individui con redditi superiori al reddito medio nazionale. Per riassumere, il bilancio pubblico determina una redistribuzione tra territori che, per la quasi totalità (..) avviene senza che vi sia un obiettivo esplicito di redistribuzione territoriale ma semplicemente come conseguenza della eterogeneità della distribuzione nelle varie aree degli individui secondo le caratteristiche rilevanti per l’erogazione della spesa (età, stato di salute, condizione lavorativa, reddito, ecc.) e il suo finanziamento (il reddito, i consumi, la ricchezza, ecc.) (..). Il criterio fondamentale è quello dell’equità orizzontale (trattare individui uguali in modo uguale), che implica che il residuo fiscale (il saldo tra i benefici ricevuti dalla spesa pubblica e il contributo al finanziamento della spesa) sia lo stesso per individui che si trovano nella stessa posizione riguardo alle caratteristiche ritenute rilevanti (reddito, età, stato di salute, ecc.)”.
Considerare il residuo fiscale come criterio per l’allocazione territoriale delle risorse, come richiesto ad esempio dalle regioni Veneto e Lombardia, significa che la regione di residenza degli individui diventa rilevante nel determinare il trattamento che ciascun italiano riceve dall’azione pubblica. Ma questo modifica radicalmente i principi politici appena richiamati, dato che tratta diversamente individui dalle stesse caratteristiche soggettive, solo perché abitano in luoghi diversi. Si badi: abitano, non “sono nati”. Fa sorgere per principio Italiani “di serie A” e italiani “di serie B”. E così come si calcola il residuo fiscale regionale, potrebbe essere calcolato quello comunale all’interno di ciascuna regione, con Milano che potrebbe protestare per il proprio residuo negativo rispetto al resto della Lombardia; e potrebbe essere calcolato quello dei quartieri all’interno di ciascuna città, con i residenti nel Centro Storico di Milano che potrebbero protestare per i trasferimenti a favore dei più poveri residenti di altri quartieri. E via via fino ai singoli individui. Ciò illustra bene come le questioni in ballo con i “residui fiscali” abbiano una grande valenza politica: esse toccano i principi di eguaglianza fra i cittadini e le finalità dell’azione pubblica.
Sul tema si è espressa con chiarezza anche la Corte Costituzionale. Nella sentenza 69/2016 ha affermato che “il parametro del residuo fiscale non può essere considerato un criterio specificativo dei precetti contenuti nell’articolo 119 della Costituzione”, che si occupa del finanziamento di Regioni ed Enti locali. Nella sentenza 118/2015 (che ha stabilito l’incostituzionalità dei quesiti referendari veneti che delineavano un assetto finanziario in cui i tributi riscossi sul territorio regionale sarebbero stati trattenuti almeno per l’ottanta per cento dalla Regione) ha affermato che “i quesiti in esame profilano alterazioni stabili e profonde degli equilibri della finanza pubblica, incidendo così sui legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica. (..) investono in pieno (..) alcuni elementi strutturali del sistema nazionale di programmazione finanziaria, indispensabili a garantire la coesione e la solidarietà all’interno della Repubblica, nonché l’unità giuridica ed economica di quest’ultima”.
Qualche riflessione aggiuntiva
E’ bene anche ricordare che, come si vede sempre dalla tabella 1, la spesa pubblica pro-capite non è uguale in tutte le regioni. E’ molto più bassa nelle regioni a statuto ordinario rispetto a quelle a statuto speciale, ma è anche inferiore nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord. Questo, anche senza considerare il pagamento di interessi sul debito pubblico, fortemente concentrato al Nord perché la ricchezza pro-capite è ancora più sperequata rispetto al reddito. La differenza fra Sud e Centro-Nord deriva da una spesa pensionistica molto minore, frutto della minore quota di occupati che hanno maturato nel tempo i requisiti di quiescenza, ma anche da una minore spesa in molti importanti servizi pubblici, a cominciare dalla sanità (Sistema CPT 2017).
Tab. 1 Spese, entrate e residui fiscali per regione e macro-area nel triennio 2013-15 (valori medi in euro pro-capite; prezzi costanti 2010)
Fonte: Pisauro (2017)
E’ bene anche ricordare che il residuo fiscale non è certo una particolarità italiana. L’azione pubblica determina forme di redistribuzione territoriale in tutti i paesi nei quali, come in Italia, vi siano norme costituzionali che stabiliscano l’accesso ad alcuni diritti di cittadinanza indipendentemente dal reddito dei singoli: tali diritti si realizzano con servizi che vengono finanziati in misura maggiore dai contribuenti a maggior reddito, ovunque essi risiedano.
Infine, la redistribuzione delle risorse pubbliche è solo uno dei fenomeni di interdipendenza economica che si determinano all’ interno di uno stato nazionale. Ai flussi di risorse pubbliche corrispondono infatti flussi di risorse private di senso contrario, principalmente per l’acquisto di beni e servizi (3). La spesa pubblica al Sud attiva cospicue importazioni interregionali dal Centro-Nord; assai più di quanto non accada per la spesa al Nord, dato che le regioni più avanzate sono assai più autosufficienti nella produzione di beni e servizi. L’appartenenza ad una comunità nazionale non può essere valutata, anche solo sotto il profilo economico, attraverso i soli flussi di risorse pubbliche; vanno considerate tutte le relazioni che intercorrono fra i diversi territori. Esattamente come l’appartenenza all’Unione Europea non può essere misurata solo attraverso il “saldo netto” di bilancio (differenza fra contributi al bilancio comunitario e spesa comunitaria che ricade nel proprio territorio): sia perché le stesse spese comunitarie attivano flussi di commercio fra gli stati membri, ad esempio sotto forma di importazioni nei paesi “della coesione” da parte delle economie più avanzate (4), sia perché i benefici, anche solo economici, dell’appartenenza all’ Unione sono assai superiori, ad esempio in termini di mercato unico.
Questo senza considerare l’effetto che la storia di un’economia nazionale integrata ha prodotto sulle caratteristiche produttive delle specifiche regioni. E naturalmente senza considerare gli aspetti politici, culturali ed etici dell’appartenenza allo stesso paese.
Gianfranco Viesti, Università di Bari
Riferimenti bibliografici
Arachi, G., Ferrario e C., Zanardi, A. (2010), “Regional redistribution and risk sharing in Italy: the role of different tiers of government”, in Regional Studies, n. 44
Commissione UE, My Region, my Europe, our Future. Seventh Report on economic, social and territorial cohesion, Bruxelles, 2017.
Di Caro P., Monteduro M.T. (2017), “La finanza locale in tempo di crisi: verso un modello di decentramento più equo e sostenibile?”, in La finanza pubblica italiana. Rapporto 2017, a cura di G. Arachi e M. Baldini, Il Mulino
Giannola, A., Petraglia, C. e Scalera, D. (2016), “Net fiscal flows and interregional redistribution in Italy: a long run perspective (1951–2010)”, in Structural Change and Economic Dynamics, n. 39
Giannola A., Petraglia C. e Scalera D. (2017) “Residui fiscali, bilancio pubblico e politiche regionali”, in Economia pubblica, n.2
Pisauro G. (2017), “Audizione del Presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio Giuseppe Pisauro nella V Commissione della Camera dei Deputati, in merito alla distribuzione territoriale delle risorse pubbliche per aree regionali”, Roma, 22.11.2017
Sistema CPT (2017), “Relazione annuale CPT 2017”, Temi CPT, n.4
Sistema CPT (2018), “Relazione annuale CPT 2018”, Temi CPT, n.7
SRM, L’interdipendenza economica e produttiva tra il Nord e il Sud Italia, Giannini, 2014.
Staderini A. e Vadalà E. (2009), “Bilancio pubblico e flussi redistributivi interregionali: ricostruzione e analisi dei residui fiscali nelle regioni italiane” in Banca d’Italia (a cura di), in Mezzogiorno e politiche regionali Viesti G. (2019), Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza
Note
(1) Sulle autonomie regionali differenziate sia consentito rimandare a Viesti (2019), sul cui capitolo 5 è ampiamente basato questo testo.
(2) Sull’argomento esiste una vasta letteratura; fra i recenti contributi italiani: Staderini A. e Vadalà E. (2009), Arachi, G., Ferrario e C., Zanardi, A. (2010), Giannola, A., Petraglia, C. e Scalera, D. (2016), Giannola A., Petraglia C. e Scalera D. (2017).
(3) Si vedano ad esempio i dati contenuti in SRM (2014).
(4) Si vedano ad esempio le stime contenute a pag. 186 di Commissione UE (2017).