di: Francesca Gambarotto, Riccardo Leoncini, Giulio Pedrini
EyesReg, Vol.8, N.4, Luglio 2018
La de-industrializzazione degli anni Ottanta e Novanta ha posto il problema di riconvertire le aree dismesse ad altri usi, con l’effetto di allontanare il manifatturiero dagli scenari di rigenerazione urbana (1). Questo ha condotto in taluni casi alla riduzione di quella diversificazione economica, sociale e funzionale che è un elemento alla base della dinamicità e dell’attrattività delle aree metropolitane, conducendo altresì all’espulsione (eviction) di attività produttive non legate alla rendita (Sassen, 2018).
Recentemente, tuttavia, per effetto della nuova disponibilità di spazi emersa a seguito della crisi economica, ma soprattutto dell’introduzione di nuove tecnologie (Industria 4.0) che facilitano la replicazione a distanza di alcune fasi del processo produttivo utilizzando macchinari flessibili, compatibili con la piccola scala e a basso impatto ambientale, si discute della prospettiva di re-shoring di alcuni settori manifatturieri nelle aree urbane (Clark, 2014; Censis, 2016; Wolf-Powers, 2017). L’idea di un re-shoring della manifattura urbana, seppure su nuove basi cognitive e tecnologiche, rimette in discussione i tradizionali ostacoli associati alla collocazione della manifattura nelle aree urbane (uso estensivo degli spazi, inquinamento ambientale, scarsa attrattività per i lavoratori qualificati). Barriere che sembrano abbassarsi, se non cadere, di fronte alla possibilità di produrre in modo efficiente con unità piccole decentrate: le relazioni tra input mutano, il fabbisogno di capitale umano delle nuove attività manifatturiere aumenta a discapito delle esigenze di spazio, mentre la traslazione a valle della fase di produzione nella catena del valore attenua le economie di scala e facilita la customizzazione del prodotto finale rispetto alla quale la vicinanza a un consumatore evoluto diviene una possibile fonte di vantaggio competitivo. Così come il crescente contributo dei servizi alle imprese, in particolare dei cosiddetti knowledge-intensive business services, alle filiere manifatturiere (Muller e Doloreux, 2007; Maroto-Sanchez e Cuadrado-Roura, 2009). La prossimità con i fornitori di tali servizi avanzati diviene così un fattore di competitività per le imprese così al pari delle interazioni attivabili con altri agenti/stakeholder presenti nell’area urbana. L’ibridizzazione di diversi settori di attività produttive, le cui componenti di design e progettazione acquistano un peso crescente rispetto alla fase di trasformazione, e la parziale inversione del rapporto tra servizi e produzione, rendono altresì più sfumati i contorni tra i due comparti.
Questo cambio di paradigma ha generato una narrativa che enfatizza le potenzialità della manifattura urbana in termini di impulso all’imprenditorialità e all’innovazione (Anderson, 2012; Dougherty, 2012; Hatch, 2013), oltre che di ricerca di economie di varietà, attirando altresì l’attenzione dei policy maker (ad esempio, nel 2014 una fiera di Maker si è tenuta alla Casa Bianca). Ma quando si parla di una “nuova alba” per la manifattura in città a quali industrie ci si riferisce? E quale impatto occupazionale è possibile prefigurare dal loro sviluppo?
Principali forme di manifattura urbana
La nuova manifattura urbana non è omogenea e può includere tanto le imprese attive nei settori tradizionali quanto le imprese operanti in settori tecnologicamente più avanzati (Sassen, 2009; Ellen Mac Arthur Foundation, 2017; Cities of Making, 2018). Anche il mercato di sbocco può essere diverso (Wolf-Powers et al., 2017). Talune imprese possono rivolgersi al mercato locale (local manufacturing), facendo leva sulla prossimità geografica per customizzare il loro prodotto da un lato e, dall’altro, per sfruttare la presenza di consumatori evoluti e interpretare in senso progettuale le tendenze di cambiamento della società anticipando l’evoluzione della domanda. Altre imprese possono operare con successo tanto sui mercati locali quanto sui mercati internazionali, impiegando i metodi di produzione basati sulle nuove tecnologie digitali che consentono l’interconnessione degli asset fisici con software di gestione – (re-)distributed manufacturing. Vi è poi una forma di manifattura urbana, più tradizionale, la cui permanenza nelle aree urbane può essere funzionale alla riqualificazione di quartieri in crisi e più in generale alla resilienza sociale e economica dell’eco-sistema urbano (inclusive manufacturing) ovvero alla compatibilità dei cicli di produzione urbani con i principi dell’economia circolare (green manufacturing). Caratteristiche comuni sono l’integrazione di una crescente quota di servizi e di conoscenza nella produzione di beni, con conseguente attenuazione dei confini settoriali, e l’assenza o il basso livello di economie di scala (Ferm e Jones, 2017).
Le prime evidenze sulle nuove imprese manifatturiere avviate in alcune aree urbane degli Stati Uniti sembrano validare l’idea che queste forme di produzione possano, in modo diverso, conseguire un vantaggio competitivo localizzandosi nelle aree urbane (Wolf-Powers et al., 2017). Talune imprese si rivolgono al mercato locale, facendo leva sulla prossimità geografica (definite “Micro-makers” da Wolf-Powers et al.), mentre altre imprese sfruttano la disponibilità di lavoro qualificato idoneo a interagire con le nuove tecnologie, l’accessibilità infrastrutturale e la complessità della domanda di mercato (“Innovatori globali”). In mezzo si collocano quegli operatori radicati nel sistema urbano anche per quanto concerne la domanda, che tuttavia operano su scale crescenti (“Produttori emergenti place-based”).
Con riferimento all’Italia un dato interessante è quello relativo alla dinamica demografica delle imprese manifatturiere (Censis, 2016): in un contesto di contrazione generalizzata, la riduzione delle start-up manifatturiere tra il 2009 e 2015 è stata dell’8% nelle 12 grandi città con più di 250.000 abitanti, a fronte di un calo del 18,5% a livello nazionale. Nello stesso periodo la quota delle nuove imprese manifatturiere localizzate in tali aree urbane è passata dal 9,0% all’11,2%. Il medesimo studio evidenzia inoltre come nel 2016 la quota delle start-up innovative manifatturiere ubicate nelle 12 maggiori città italiane fosse pari al 47,3% del totale nazionale, mentre tale percentuale si riduce al 37,3% se si fa riferimento all’intera platea delle start-up innovative (Censis, 2016).
Ad oggi i dati aggregati non consentono comunque di affermare l’esistenza di un fenomeno di re-shoring quantitativamente rilevante. Nell’Unione Europea essi si limitano a riscontrare come il processo di de-industrializzazione urbana si sia sostanzialmente concluso, riportando un calo sostanzialmente uniforme della quota di addetti nel settore manifatturiero tra aree metropolitane (-3,7%) e aree extra-urbane (-3,4%) tra il 2000 e il 2013 (European Commission, 2016).
Conclusioni
Lo sviluppo della manifattura urbana costituisce sicuramente un’opportunità per rinnovare e diversificare le economie delle città italiane. Tuttavia, l’analisi condotta dimostra che i benefici di un ritorno della produzione nelle aree urbane non vadano sopravvalutati e debbano essere differenziati in base al tipo di manifattura oggetto di re-shoring.
In particolare, la prospettiva dell’insediamento dei cosiddetti “urban makers” pone alcune questioni che possono essere ricondotte al più ampio dibattito circa le performance competitive e occupazionali delle start-up. La letteratura scientifica ha infatti evidenziato come la creazione netta di posti di lavoro nel medio-lungo periodo da parte delle start-up non sia necessariamente positiva, così come le loro performance in termini di produttività. È stato stimato, ad esempio, come l’avvio di 43 nuove start-up oggi avrà un effetto occupazionale netto pari a 9 posti di lavoro tra 10 anni (Shane, 2009), mentre la maggior parte delle nuove imprese, non solo mancano del capitale e delle risorse necessarie per investire in innovazione, ma non hanno produzioni sufficientemente diversificate per massimizzare i benefici derivanti dall’attività di ricerca (Ortega-Argiles et al., 2009). In questo senso la percezione dei policy maker è spesso distorta non solo dalla narrativa incentrata su una minoranza di start-up di successo a fronte di tassi di sopravvivenza molto bassi, ma anche dall’applicazione di tecniche statistiche che stimano gli effetti della start-up media e non della start-up mediana [2] (Coad e Nightingale, 2017). Alla prova dei fatti, il contributo delle nuove microimprese alla crescita dell’occupazione nelle aree urbane potrebbe pertanto essere inferiore rispetto alle aspettative generate.
Piuttosto, la localizzazione dei nuovi “urban makers” in aree tradizionalmente adibite ad usi alternativi (uffici, abitazioni) si giustificherà nella misura in cui tali imprese saranno integrate con altre attività produttive, stimolando la varietà economica e funzionale dell’eco-sistema di riferimento. La futura valutazione di questi processi di re-shoring manifatturiero non dovrà pertanto limitarsi a prendere in considerazione il loro impatto diretto, ma altresì la loro capacità di rinnovare l’economia urbana e di costituire una valida alternativa ad investimenti orientati alla rendita o al turismo. Inoltre, l’insediamento di tali attività produttive nelle aree urbane potrebbe contribuire alla rigenerazione di specifici quartieri, con particolare riguardo alle periferie oggetto del fallimento di progetti di sviluppo tradizionali, focalizzati sullo sviluppo delle attività legate alla residenzialità e ai servizi commerciali.
Francesca Gambarotto, Università di Padova
Riccardo Leoncini, Università di Bologna
Giulio Pedrini, Università di Padova
Riferimenti bibliografici
Anderson C. (2012), Makers: The new industrial revolution. New York, Random House.
Clark (2014), Manufacturing by design: the rise of regional intermediaries and the re-emergence of collective action. Cambridge Journal of Regions Economy and Society, 7 (3), 433-448.
Coad A., Nightingale P. (2017), Muppets and gazelles: political and methodological biases in entrepreneurship research. Industrial and Corporate Change, 23 (1), 113-143.
Censis (2016), Le città dei maker. L’Italia, la nuova manifattura e la crescita economica. Roma.
Cities of Making (2018), City report. www.citiesofmaking.com (accesso effettuato il 22 maggio 2018).
Dougherty D. (2012). The maker movement. Innovations, 7 (3), 11–14.
Ellen Mc Arthur Foundation (2017). Cities in the circular economy: an initial exploration. www.ellenmacarthurfoundation.org (accesso effettuato il 22 maggio 2018).
European Commission (2016). The state of European cities. Cities leading the way to a better future. Publications office of the European Union, Luxembourg.
Ferm J., Jones E. (2017) Beyond the post-industrial city: valuing and planning for industry in London. Urban Studies, 54 (4), 3380-3398.
Maroto-Sanchez A., Cuadrado-Roura J. R. (2009), Is growth of services an obstacle to productivity growth? A comparative analysis. Structural Change and Economic Dynamics, 20 (2), 254-265.
Meliciani V., Savona M. (2011), Regional specialisation in business services: agglomeration economies, vertical linkages and innovation. SPRU Electronic Working Paper n. 193.
Muller E., Doloreux D. (2007), The key dimensions of knowledge-intensive business services (KIBS) analysis: a decade of evolution. Fraunhofer ISI Working Papers Firms and Regions No U1/2007.
Ortega-Argiles R., Vivarelli M., Voigt P. (2009), R&D in SMEs: a paradox? Small Business Economics, 33 (1), 3–11.
Sassen S. (2009). Cities today: A new frontier for major developments. The Annals of the American Academy of Political and Social Science, 626 (1), 53-71.
Sassen S. (2018) The Global city: strategic Site, new Frontier. In: Ferro L., Smagacz-Poziemska M., Gómez M., Kurtenbach S., Pereira P., Villalón J. (eds) Moving Cities – Contested Views on Urban Life. Springer VS, Wiesbaden.
Shane S. (2009), Why encouraging more people to become entrepreneurs is bad public policy. Small Business Economics, 33 (1), 141–149.
Wolf-Powers L., Doussard M., Schrock G., Heying C., Eisenburger M., Marotta S. (2017), The Maker Movement and urban economic development. Journal of the American Planning Association, 83 (4), 365-376.
Note
[1] Gli autori desiderano ringraziare Valentina Bonello, Claudia Faraone e Luca Nicoletto per gli utili suggerimenti, nonché i gruppi di ricerca Metrolab e “Cities of Making” per il coinvolgimento nelle loro attività seminariali.
[2] Rispetto ai principali indicatori economici (dimensione, longevità, performance finanziaria), le start-up tendono infatti a distribuirsi in modo positivamente asimmetrico, con la media che si colloca sensibilmente al di sopra della mediana. Ne consegue che l’utilizzo delle convenzionali tecniche di regressione lineare, che misurano l’effetto medio associato all’impresa media, possono condurre a valutazioni erronee se estese all’intera platea delle nuove imprese.