di: Adriano Giannola
EyesReg, Vol.3, N.4 – Luglio 2013.
Oggi si paventa la desertificazione industriale, così – dopo decenni – il tema della politica industriale ritrova diritto di cittadinanza. Il che impone un’approfondita analisi del sistema industriale, dei suoi tratti caratteristici e dei motivi della sua progressiva crisi, esplosa dopo il 2007 ma ben evidenti ad osservatori attenti del “modello distrettuale” fin da metà anni Ottanta.
Nel nostro caso una riflessione sulla “natura” dell’impresa si impone ed è inestricabilmente legata ai contesti dove essa opera; a particolari territori dove esse si sono espresse al meglio. Una riflessione che necessita in premessa di una qualificazione essenziale. Quello distrettuale anche nei momenti di massimo splendore, si è rivelato per quei territori che danno corpo al pervicace dualismo italiano un affascinante, ma irripetibile modello di riferimento. Un miraggio che ha pesato non poco nel definire le prescrizioni delle politiche somministrate alle “aree sottoutilizzate” (eufemismo per non dire Mezzogiorno) alimentate a lungo dall’illusione di poter replicare quel modello.
L’esperienza ormai impone di riconsiderare criticamente le tante “virtù” attribuite a quel modello proprio partendo dalla tipizzazione della piccola e piccolissima impresa, (sia essa capitalistica o familiare (progetto di vita) nell’accezione di Giacomo Becattini). Proprio Becattini, il più raffinato analista di questa tematica, caratterizza così il meglio del Sistema Italia: “Nei passati quarantacinque anni, l’Italia, in misura non lieve, proprio in virtù dei micro-sistemi industriali, si è ritagliata un’area di supremazia durevole in beni di consumo, macchinari che servono a produrli” mentre la grande impresa, anche familiare, non ha avuto il successo di quella piccola e piccolissima impresa strutturata in sistema di imprese. Un tratto essenziale di questa impresa, specie di quella “progetto di vita” è che “…dentro ogni micro-concorrente, cioè ogni imprenditore, c’è un monopolista o, per lo meno, un monopolista in potenza”. Ed in effetti, la concorrenza pura e perfetta nella realtà, concettualizza l’inesistente.
La persistenza e lo sviluppo di ogni sistema, di ogni rete di imprese, è vitalmente connessa alla misura in cui si riesce ad influire sui prezzi, imporre qualità, stringere relazioni. Tutti tratti che evidenziano una consapevole e naturale aspirazione monopolista, da realizzare quasi istintivamente, oltre che razionalmente. In definitiva, specie se le imprese si organizzano a sistema ed ancor di più in distretti con basi territoriali, il paradigma operativo non assume certo i caratteri della concorrenza ma, semmai – per dimensioni e numerosità delle popolazioni coinvolte – quelli della concorrenza monopolistica. Nel disporsi a sistema, nel creare la propria complementarità allo “sciame”, ogni “ape” trova – cooperando – la sua nicchia che è al contempo fatta a misura di quella, collettiva e ben strutturata, che identifica il sistema di imprese. Questo è stato in effetti un fondamentale punto di forza del Sistema Italia. Se il made in Italy, infatti, non avesse avuto la capacità di profittare con continuità dei vantaggi garantiti dal partecipare ad un mercato non concorrenziale, di concorrenza monopolistica appunto, e se non avesse saputo trovare il modo (endogeno o – come si dirà – esogenamente accompagnato) di evitare l’approdo all’equilibrio cui tende questa forma di mercato nei libri di testo, esso oggi non esisterebbe. Da quando si erode il tratto monopolistico, e – ancor di più – la possibilità di evolvere verso forme di vero e proprio oligopolio, il made in Italy scopre di aver sempre meno respiro. Ed è sul crudo realismo di questa prospettiva che occorre oggi fermare l’attenzione per poter ripartire evitando il rischio di logorarsi, come ora, in una guerra di posizione persa in partenza.
Da un banale punto di vista tecnico, la ragione di questa preoccupazione è molto semplice e nota: l’equilibrio tendenziale di un sistema in concorrenza monopolistica è un equilibrio assolutamente inefficiente, nel quale – rispetto alla inesistente concorrenza perfetta – si produce di meno, si praticano prezzi più elevati, si gode – ma solo nel breve periodo – di rendite da monopolio che vengono gradualmente ad annullarsi via via che il mercato, per l’ingresso di nuove imprese, tende a realizzare la sua configurazione finale. Un regime nel quale, in definitiva, anche per l’impresa non si hanno i vantaggi ma solo i difetti del monopolio. Strutturato in piccole e piccolissime imprese il sistema è caratterizzate non solo da un’assoluta e ben nota inefficienza tecnica ma anche da una altrettanto inefficiente situazione distributiva. Infatti le imprese in questione occuperanno meno lavoratori, a salari più bassi rispetto ad un’ipotetica situazione di concorrenza, e ciò perché l’imprenditore “monopolista” agirà in ossequio alla lapalissiana considerazione fatta negli anni Trenta da Joan Robinson (che integra l’acuta notazione di Becattini) per la quale “… un monopolista deve essere necessariamente un monopsonista nel mercato del fattore che egli impiega”.
Se questa è la prospettiva immanente che accompagna la vita di ogni “sciame”, è da chiedersi, come abbiamo potuto plausibilmente sostenere che, al netto, le virtù superano questi limiti consentendo di guardare con fiducia ed ottimismo alle sorti di un sistema così strutturato?
Come noto, Becattini che è stato tra i pochi a porsi questo problema, trova in Marshall la risposta (indubbiamente fondata) delle cosiddette “economie interne al distretto ma esterne all’impresa”, fondamentali per perpetuare quel potere di mercato che consente di realizzare prima e difendere poi le rendite, proprio perché si resta costantemente e dinamicamente distanti dalla configurazione tipica delle situazioni di equilibrio.
Venendo all’attualità, e cioè al dramma presente e alle oscure prospettive, come possiamo spiegare le nostre crescenti difficoltà, la nostra ormai palese debolezza?
A ben vedere la capacità di mantenere le posizioni dipende, da un lato, dalla possibilità di conseguire progressive riduzioni dei costi medi unitari e/o, dall’altro, dalla possibilità di godere dell’espansione della domanda sui mercati di riferimento, un problema alla cui soluzione si presume avrebbero dovuto concorrere le famose economie esterne distrettuali. E’ fuor di dubbio che il loro operare sia stato ben lungi dal soddisfare dinamicamente l’esigenza di più che compensare l’effetto “inefficienza” (l’erosione delle rendite) dovuto ai nuovi ingressi su un mercato che è sempre più globale). Sappiamo perciò che in assenza di un significativo riposizionamento della nostra manifattura la crescita dei mercati tipici del made in Italy è destinata a mantenersi particolarmente contenuta (Costabile, 2006; De Cecco, 2004), il che garantisce un poco rassicurante “equilibrio naturale” di declino in stagnazione. A ciò si aggiunga l’impatto – sul quale non si indugia qui – dei “necessari” processi di risanamento della finanza pubblica.
Senza troppo recriminare dovremmo ricordarci che la Storia del successo delle nostre imprese e dei distretti si è fondato sulla capacità di spiazzare i concorrenti e di acquisire quote importanti di un mercato – quello continentale – fortemente protetto. In altri termini si è diventati leader invadendo e saturando un mercato “domestico” di scala continentale come quello europeo che, chiuso fino a non troppi anni fa, ormai è sempre più aperto ai nuovi concorrenti del resto del mondo. Quindi, la difesa delle posizioni è sempre più affidata alla capacità di competere sui costi, e proprio su questo versante dovrebbe, come detto, soccorrere l’operare delle “economie esterne all’impresa ed interne al distretto”. C’è da chiedersi se sia ancora (se sia mai stata) così valida ed efficace la funzione del deus ex machina delle economie esterne marshalliane. Se cioè questa categoria, sinonimo di territorio, cultura e capitale umano e/o (come si dice oggi) di capitale sociale, sia stata e sia ancora davvero così determinante. Ad un’analisi attenta, essa risulta, anche per il passato, un architrave alquanto fittizio, utile a dare una dignitosa facciata dietro la quale coprire le robuste e sostanziose iniezioni esogene di competitività somministrate alle nostre imprese dalla gestione strategica del cambio.
Se consideriamo infatti con realismo che cosa ha favorito ed ha consentito di mantenere in piedi questo sistema fortemente centrato sui sistemi distrettuali dobbiamo convenire che certo è a dir poco sintomatico che il ruolo delle “economie esterne distrettuali” sbiadisca fino a dissolversi proprio al venir meno della possibilità di manovrare lo strumento valutario.
Non è certo far violenza alla realtà il fatto che questo sistema di capitalismo familiare centrato sulla piccola – piccolissima impresa, strutturato per sistemi territoriali, ha conosciuto il suo grande sviluppo dal ’73 all’87: il periodo delle svalutazioni competitive. E non è casuale che le difficoltà emergano immediatamente nell’87, quando si tenta di entrare nella banda stretta del sistema monetario europeo; un tentativo che si conclude nel ’92 con l’uscita dal sistema monetario europeo che, a sua volta, consente una maxi – svalutazione della lira rispetto al marco di circa il 40%, proseguita fino al 1995, e che dà nuovo ossigeno al sistema distrettuale (mentre si consuma la crisi delle banche e di quel po’ di industria che intanto si era sviluppata al Sud). Dal ’95 in poi, la prospettiva prima e la realizzazione poi dell’unione monetaria, riducono progressivamente l’ossigeno della svalutazione. E’ perciò non casuale che, da allora, specie sul mercato europeo che avevamo conquistato con l’ausilio essenziale delle svalutazioni competitive, abbiamo visto svanire la concreta efficacia delle economie esterne distrettuali. I dinamismo dei distretti rallenta, sempre più intenti come sono a gestire i residui vantaggi di quella maxi svalutazione via via erosa – nell’era dell’Euro e della “concertazione” – dal declino relativo di produttività e, quindi, di competitività.
Le virtù delle economie esterne marshalliane, dunque, sono messe palesemente in crisi dalla caduta del “velo valutario” che dava effettiva sostanza alla loro elegante apparenza. Ne è conferma il fatto che si è cercato di far fronte a queste difficoltà crescenti con disperate “svalutazioni interne” (termine asettico che allude alle reiterate riforme del mercato del lavoro).
Il contestuale progredire dell’integrazione dei mercati a sua volta, se certamente offre nicchie di dimensioni mondiali a virtuosi piccoli produttori nazionali, d’altro lato implica un progressivo e consistente ingresso sul mercato di competitori. Ad oggi l’effetto di queste complesse dinamiche attiva una pericolosa discesa nel Maelstrom del Sistema Italia; una tendenza inerziale verso il paventato “equilibrio” di concorrenza monopolistica, con i suoi tratti di inefficienza dinamica e di lenta ma costante perdita di competitività. Di qui la spinta alla delocalizzazione delle nostre imprese, dei nostri distretti, e non certo verso il Mezzogiorno, saltato a piè pari da questi processi.
Il che, almeno, dovrebbe consigliare estrema cautela nel continuare a pensare di esportare al Sud un modello che è in drastica riconversione nelle sue terre di origine, evitando così di perpetuare l’errore che ha alimentato dal 1998 le pedagogiche buone intenzioni della Nuova Programmazione.
In questo quadro, oggi, il Mezzogiorno è un’opportunità tutta da interpretare che non solo non è seriamente contemplata ma, al contrario, è posta staticamente in contrapposizione agli interessi e alle urgenze in agenda del nostro capitalismo familiare. Pensare che le opportunità offerte dal Sud possano spontaneamente concorrere ed integrare una strategia nazionale è al momento un’illusione. Se si consolida questa prospettiva, l’Italia è destinato a restare il Paese più lento, quando e se riprenderà a crescere ed il Mezzogiorno l’area d’Europa, in fase di più intensa emarginazione rispetto alle altre “aree problema” dell’Unione.
La via di fuga, molto banalmente oggi perseguita dal Centro – Nord è di continuare a contestare con sempre meno convinzione la natura endogena del “declino”; in questo quadro il Sud (visto come epicentro del problema), è da stralciare e da affidare alle cure dell’Unione.
Il federalismo fiscale, ora in sordina ma fino a poco fa al centro della scena, si propone come strumento per gestire l’eutanasia della annosa Questione e – da sperare inconsapevolmente – per avviare un percorso di “prospera” integrazione dipendente del Settentrione con la Baviera.
Questo modo in cui si manifesta la forza residua e smarrita del capitalismo familiare, segnala una debolezza di analisi e di proposta di questo agente fondamentale dell’economia italiana. La contraddizione è che quel che resta degli “spiriti animali” veri del Paese certo non lo troviamo nella frazione superstite della grande impresa privata, ma è ora più che mai patrimonio dei tanti “progetti di vita” sparsi sul territorio. Lasciati soli, essi esprimono un progetto a dir poco debole per disincagliare e rimettere in moto il sistema, quasi prigionieri dell’assoluta necessità di far fronte a quel “declino” che, fino a ieri negato rischia di trasformarsi ora in una lotta per la sopravvivenza.
Adriano Giannola, Università degli Studi di Napoli, Federico II, e SVIMEZ
Riferimenti bibliografici
Becattini G (1988) Distretti industriali e Made in Italy. Le basi socioculturali del nostro sviluppo economico, Bollati Boringhieri, Torino.
Becattini G (2001) “Il caleidoscopio dello sviluppo locale. Contributo a un dibattito napoletano”, in Quaderni dell’Archivio Storico. Supplemento. Istituto Banco di Napoli – Fondazione, Napoli.
Cipolletta I (2007) intervista in Repubblica – Affari e Finanza del 19 febbraio.
Costabile L (2006) “Note su crescita e declino dell’economia italiana” in Giannola A (a cura di) Riforme istituzionali e mutamento strutturale. Mercati, imprese e istituzioni in un sistema dualistico, Carocci press on line, Roma.
De Cecco M (2004) “Alle radici dei problemi dell’industria italiana nel secondo dopoguerra” Rivista Italiana degli Economisti, n.1.
at 11:07
Articolo molto interessante, ma allora la lettura di Dematteis della Terza Italia e la proposizione dei “reticoli territoriali” e le successive specializzazioni dei “nodi” non sono “sufficienti” (ovviamente penso che però rimangano le varie condizioni perchè essi si creino) a reggere la moneta unica?
A presto.
Stefano Aragona
Ing., PhD. , Ricercatore in Urbanistica
Master of Sciences in Economy Policy & Planning
Dipartimento Patrimonio, Architettura, Urbanistica
Università Mediterranea di Reggio Calabria
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