Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Le città del presente, le città del futuro: le politiche

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di: Giuseppe Dematteis

EyesReg, Vol.2, N.2 – Marzo 2012.

La grande mutazione urbana in un paese senza politiche per le città

Si è ormai compiuta una mutazione iniziata qualche decennio fa, in seguito alla quale le categorie e le immagini tradizionali della città sono diventate finzioni non solo inutili, ma sovente anche dannose. Le città – almeno quelle di una certa dimensione – non possono più essere pensate come degli aggregati compatti, geograficamente individuabili entro confini certi, con una popolazione fatta di residenti, i cui rappresentanti democraticamente eletti fanno sì che la città si comporti come un attore collettivo unitario e coeso che persegue l’interesse generale dei cittadini. Oggi tutti sanno che non è più così, se mai lo è stato, eppure buona parte della nostra impalcatura istituzionale e normativa parte dal presupposto che sia così. La realtà è che i soggetti, le decisioni, i flussi (tangibili e non) e quindi le stesse politiche che riguardano lo spazio e la società urbana alla scala locale appartengono in realtà a più scale, da quella globale delle multinazionali e dei mercati finanziari a quella europea e mediterranea dei grandi corridoi trasportistici multimodali e dei fondi strutturali comunitari, fin a quella dei rapporti della città con la sua regione e del centro con i suoi quartieri.

Il gruppo di studio del Consiglio Italiano per le scienze sociali sul governo delle città che ho di recente coordinato[i] individua il principale mutamento in due forme di “scomposizione”. Una è “orizzontale”: la città non corrisponde più a un’unica municipalità e ciascuno dei comuni che forma il sistema urbano-metropolitano tende a seguire propri cammini, anche in contrasto con gli interessi generali del sistema urbano di cui fa parte. C’è poi anche una scomposizione “verticale” della città, in quanto le componenti urbane che operano a più livelli territoriali (dalle grandi imprese alle reti dei trasporti ecc.) tendono a seguire proprie logiche di settore che per loro natura il più delle volte sono in contrasto con gli interessi generali di nella città abita e lavora. Non solo, ma i portatori di logiche settoriali riconducibili a grandi interessi particolari (privati e non) che operano soprattutto a scala sovra-locale (nazionale, transnazionale) tendono a sostituirsi al governo eletto democraticamente nello svolgere attività strumentali e di servizio, fin a configurare quello che M. Cammelli (cap. 10) definisce un governo privato dei servizi pubblici. Come egli osserva, è impropria la qualifica di contrattuali, attribuita ai rapporti tra i soggetti forti privati (o comunque di settore) e le municipalità elettive, non solo per la debole capacità contrattuale di queste ultime (dovuta soprattutto all’assenza di una politica nazionale per e nelle città), ma anche perché i governi locali non sono in grado di definire e controllare le prestazioni convenute e soprattutto perché gli effetti degli accordi ricadono sui terzi.

Inoltre le logiche settoriali tendono a sfruttare l’intrinseca debolezza delle singole municipalità, anche mettendole in concorrenza tra loro, al fine di imporre decisioni a vantaggio dei poteri più forti. Ciò fa si che il territorio urbano diventi la merce di uno scambio ineguale tra il grande capitale privato e la debolezza finanziaria dei comuni. In particolare gli interessi immobiliari sono lasciati liberi di seguire la strada della rendita e della speculazione. Ai danni della speculazione finanziaria globale si aggiungono in Italia quelli più specifici derivanti da una rendita fondiaria e immobiliare che negli ultimi quindici anni ha fatto del mattone l’attività e la forma di investimento più redditizia. Con due principali conseguenze negative. Quella di ridurre gli investimenti nei settori produttivi più avanzati e quella di co-interessare alla speculazione gli enti pubblici locali pronti a negoziare la cessione di servizi e di beni comuni per aggiustare i propri bilanci. Senza contare i molti casi di corruzione favoriti da questo sistema, esso ha, come noto, un impatto negativo sui consumi di suolo, sulla sostenibilità energetica e sui paesaggi. E’ evidente come in presenza di questa vendita dei diritti e dei volumi edificabili a cui, salvo rare eccezioni, nessun ente sovraordinato (meno di tutti il governo centrale interessato a ridurre i suoi trasferimenti) vuole veramente porre freno, è ben difficile che i comuni possano programmare una città rispondente agli interessi complessivi di chi ci opera e ci vive. Tanto più che, come ancora sottolinea giustamente Bellicini (cap. 3), si tratta in realtà di una svendita, in quanto gli enti locali, quand’anche volessero instaurare un rapporto corretto con i privati, basato su un conto economico chiaro e trasparente, il più delle volte non avrebbero gli strumenti né le capacità tecniche per farlo.

Quando leggiamo autori come Flaubert, Simmel, Benjamin, Musil ci rendiamo conto che questa scomposizione verticale è la naturale evoluzione di qualcosa che loro avevano già ben capito, cioè che l’essenza del moderno si manifesta nella metropoli in quanto aggregato incoerente e sovente contraddittorio e conflittuale di soggetti diversi tra loro per valori, obiettivi ed azioni.. Oggi la grande città dispiega compiutamente la sua natura caotica, imprevedibile, la sua struttura frammentata e reticolare, ormai refrattaria ad ogni modello di governo di tipo puramente autoritativo e conformativo. Di qui l’importanza per gli analisti di procedere induttivamente dal riconoscimento dei processi in atto all’individuazione di modalità di governo possibili, quindi necessariamente deboli, non rigidamente normative, ma di natura regolativa e strategica..

Credo che occorra prender atto che oggi una governabilità urbana che voglia essere efficace deve essere limitata, intrinseca ai processi e quindi capace di cogliere e valorizzare le sinergie tra interventi settoriali e le potenzialità offerte dal mutare delle situazioni catalizzatrici dei diversi interessi in gioco. Ciò che non significa affatto rinunciare a governare e quindi a ricomporre la città.

Occorre a mio avviso partire dall’idea che ogni città è un pezzo di territorio unico perché specifico, non fungibile, né delocalizzabile, mentre invece è plurimo il modo con cui esso è percepito, rappresentato, valutato, fruito e vissuto dai vari soggetti. Anche se è in questo spazio materiale e sociale e per mezzo di esso che deve operare la varietà eterogenea e composita delle organizzazioni e delle popolazioni urbane nel perseguire molti dei loro diversi e sovente confliggenti obiettivi.

Questo intreccio inestricabile tra spazio e società è ciò che rende difficile separare il governo delle città dal governo del loro territorio e questo governo dal suo ordinamento spaziale, cioè dalla pianificazione urbanistica. Come osserva Luigi Mazza (cap. 8) questi tre insiemi dovrebbero essere tenuti distinti: la pianificazione dovrebbe essere solo una componente del governo del territorio e questa una componente del più comprensivo governo delle città. La confusione tra questi tre piani, quale si ha nella urbanistica cosiddetta contrattata o negoziale, fa si che la pianificazione urbanistica (cioè il piano inferiore) rischi di essere al tempo stesso troppo ambiziosa e poco efficiente.

Per quanto riguarda invece il fatto che ogni città è diversa dalle altre, mi trovo d’accordo con Marco Cammelli (cap. 10), quando dice che il vizio di fondo del governo (o non-governo) delle città italiane sta nello storico rifiuto di riconoscere queste diversità. Sta nell’illusione che una disciplina uniforme imposta dal “centro”, sia necessaria per assicurare l’unità politica a livello nazionale.

Il fatto è che dall’Unità ad oggi il centro è sempre stato troppo debole sia per riconoscere alle città il diritto di differenziarsi, sia per conformarne i comportamenti. Di conseguenza le diversità, non riconosciute esplicitamente, hanno dovuto esserlo surrettiziamente nella forma di regimi speciali e in deroga e nella tolleranza di pratiche illegali come gli abusi edilizi, salvo ricorrere poi a rimedi controproducenti come i condoni. E ciò ha creato disuguaglianze ben più nocive per l’unità nazionale – si pensi a quanto pesano le città nel divario Nord-Sud – di quanto sarebbe derivato da un riconoscimento esplicito delle differenze..

Tutto questo si presenta oggi in modo drammatico nelle aree metropolitane. avendo le città ormai superato largamente i confini municipali, una progettualità di sistema e una parte importante dei servizi richiedono forme di governo con competenze territoriali di tale più ampio raggio. L’arretratezza italiana in questo campo è ben nota come sono noti i fallimenti delle varie leggi a partire dalla 142 del 1990. Ora qualche aspettativa la suscita la legge 42/2009 (se finalmente cominciasse ad essere attuata), specie per quanto riguarda la possibilità delle singole città metropolitane di trattare con il centro tipologie di autorità metropolitana differenziate.

Alla fatidica domanda su che fare all’interno del già citato gruppo di lavoro del CSS sono emerse due ipotesi, entrambe basate sul riconoscimento dei principi di autonomia locale attiva, diversificazione, responsabilità e sussidiarietà (si vedano in particolare le proposte di M. Cammelli di “statuti delle città” e l’idea che l’autonomia dev’essere un punto di arrivo e non di partenza). Una è che il procedimento cominci dal basso. Sarebbero le città – o almeno le più capaci e consapevoli – a dover adottare tutte le misure amministrative possibili e contemporaneamente chiedere ai livelli superiori di governo, fin a quello centrale, di fare la loro parte: di adottare le misure di loro competenza, anche in attuazione di leggi finora disattese; di intervenire sulle politiche di settore; di indirizzare l’azione delle società partecipate e degli enti strumentali da loro controllati. A questa ipotesi si può obiettare che i poteri locali sono troppo deboli per autoriformarsi perché, come s’è detto, troppo succubi di interessi particolari che oggi ne impediscono una governance unitaria. Una seconda ipotesi è che la governance auto-riformatrice locale, capace di dare l’avvio al processo, debba anzitutto essere imposta dall’alto, con legge statale, sia pure diversificata per ogni area metropolitana. In ogni caso è evidente che – indipendentemente dall’avvio – è poi comunque decisiva l’interazione tra il governo centrale e le future città metropolitane, come risulta dalla stessa legge 42/2009, la quale prevede un avvio triennale del processo in cui alle città stesse è riconosciuto un ruolo attivo e differenziato. Forse le grandi città potrebbero cogliere questa occasione per elaborare la bozza di un loro più comprensivo “statuto della città”, che indichi al governo centrale, per ciascuna di esse, le esigenze e quindi le misure e gli indirizzi da adottare già nell’immediato. Ma è difficile che le città si muovano senza che i soggetti – individuali e collettivi, residenti e non – che formano le variegate popolazioni urbane siano consapevoli della necessità di un governo urbano e dei vantaggi che essi ne potrebbero trarre se rispondesse a certe caratteristiche e a certe condizioni. C’è quindi anche una responsabilità degli studiosi di questi problemi nei confronti di un’opinione pubblica poco e male informata.

Giuseppe Dematteis, Politecnico di Torino


Note

[i] I risultati sono pubblicati nel volume da me curato “Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre”, edito da Marsilio nell’ottobre 2011.

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