Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Le città del presente, le città del futuro: la forma urbana

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di: Fiorenzo Ferlaino

EyesReg, Vol.2, N.2 – Marzo 2012.

Nel 2008 sono successe quattro cose importanti: è sopraggiunta la crisi economica; il consumo di pesce coltivato ha superato il consumo di pesce pescato; la velocità di crescita della popolazione mondiale ha toccato un flesso (da adesso in poi la sua crescita tenderà a diminuire nel tempo); si è raggiunto il 50%  di urbanizzazione della popolazione mondiale. A fine 2011 la Cina ha dichiarato di aver superato la stessa percentuale.

Sono cambiamenti epocali e fanno pensare che la crisi in cui ci troviamo sia qualche cosa di più di una fase depressiva di un macro ciclo economico shumpeteriano. Una cosa resta chiara: saranno le grandi agglomerazioni urbane a strutturare e dare forma territoriale alla organizzazione sociale. In questa epocale riarticolazione territoriale l’occidente certamente “fa strada”: la crisi è partita dal suo centro (gli USA) per diffondersi e radicarsi in Europa. Nelle sue aree periferiche i tassi di natalità sono da tempo decrescenti e in molti casi (Europa sia occidentale che orientale) insufficienti alla riproduzione delle generazioni precedenti; l’impronta ecologica è da più di un decennio insostenibile; da diversi decenni la città predomina sul rurale e oggi la popolazione urbanizzata ha raggiunto percentuali che nei paesi centrali si aggirano tra il 70 – 80 % del totale.

In Europa e in Italia è stata da tempo superata la forma della città storica nonché l’ordine della loro distribuzione che strutturava le ‘località centrali’ del mercato agricolo e preindustriale.  Dalla città di mercato, religiosa, amministrativa, militare, con i suoi meravigliosi palazzi, le sue fortezze, le grandi chiese, i quartieri artigiani, che hanno reso “bello il Belpaese”, si è passati alle città industriali che proprio intorno a quei centri si sono dispiegate. Oggi i centri storici pesano poco, dal cinque al dieci percento dello spazio urbanizzato.

E’ stata superata anche la metropoli industriale frutto dell’espansione delle cinte daziarie e dei borghi rurali limitrofi e caratterizzata da un’edilizia ‘necessaria’ alla riproduzione del lavoro e sempre insufficiente; da una rendita urbana decisamente “terzo incomodo” tra i profitti e i salari. L’obsolescenza delle aree centrali e la craterizzazione relativa della rendita della città industriale è oramai letteratura: deriva dallo sviluppo e crescita della città, dai suoi flussi eccessivi in entrata, dall’incremento del valore dei suoli inferiore all’incremento dei profitti, dalla eccessiva vischiosità all’accessibilità dei servizi, dalla scarsa mobilità centro-periferia.

Dal punto di vista morfologico la città compatta ha avuto ancora un momento di crescita nella città liberale, quella dell’infrastrutturazione e della riorganizzazione del reticolo interno, ma già nella città socialdemocratica, del diritto alla residenza e ai servizi (ultima eredità della città industriale), si sono poste le basi per un suo superamento. Da allora la città compatta non esiste più e col declino dell’industria è nato un oggetto nuovo che non si sa nominare: la città postindustriale, di cui si ha difficoltà a individuarne un nuovo motore di crescita, forse la green economy, forse l’economia della conoscenza. O, più probabilmente, una sua strisciante e lunga crisi.

Quando la maggioranza delle persone al mondo è urbanizzata allora non è più il territorio rurale e agricolo a costituire lo sfondo su cui si staglia la città e la metropoli quanto piuttosto è l’urbanizzato a costituire la scenografia entro cui ritagliare e far emergere i confini dello spazio rurale, dello spazio agricolo, di quello naturale. E’ ciò che sta accadendo in Europa, in Italia e in altre parti del mondo sviluppato.

In questa realtà, termini quali periurbanizzazione, sprawl, rururbanizzazione appaiono descrizioni fenomeniche di processi e differenziazioni locali, regionali.  Sono rappresentazioni, narrazioni di una dinamica unitaria (già individuata da Gottman nel 1957 nella formazione della megalopoli del corridoio Boston-Washington), che assume morfologie specifiche di adattamento alla fisicità dei luoghi, alle matrici territoriali preesistenti, alle loro caratteristiche socioeconomiche. In questo panorama oggetti quali Megacities, Megapolis, Città lineare costiera, Città diffusa, ecc. sono costruzioni, letture multimorfiche specifiche dello sfondo. E questo sfondo è una rete (lo si dice da tempo) in cui coesistono gerarchia e connettività, competizione e interterritorialità, ancoraggio e radicamento, attrattività dei movimenti centripeti e forme centrifughe di contro-urbanizzazione. Ma la caratteristica più importante è data dal radicale cambiamento di queste componenti nel tempo, dall’accelerazione del mutamento.

Le stesse morfologie interne ai nodi maggiori si differenziano, soprattutto in virtù delle componenti socio-economiche in gioco. Rispetto agli stilemi urbanistici e tipologici la città post-industriale racchiude oggetti diversi che ancora una volta non si sanno nominare e che sono stati inseriti sotto il termine di “post-moderno”. Ne elenchiamo sinteticamente alcuni:

  1. la città duale che contrappone fattivamente la ricchezza alla povertà, la verticalità dei grattacieli e dei grandi stabili alla bidonville, fatta da bassi fabbricati spontanei accavallati l’un l’altro, la privatizzazione della sicurezza  e il controllo degli spazi dei ceti medi e alti alla insicurezza e ingovernabilità dello spazio pubblico;
  2. l’Hong Kong Style in cui la maglia razionale dei grattacieli forma un reticolo nuovo di città compatta, ordinata e moderna e che è stato emblema di una modernità già forse consumata;
  3. la metropoli moderna, che continua a esistere, soprattutto nel mondo anglosassone, formata dalla canonica trilogia: il Centro degli affari (il Central Business District, il Downtown americano,  la City londinese), quindi la città residenziale compatta e infine la città diffusa delle ville di pregio e delle villette a schiera;
  4. la metropoli policentrica di cui forse lo Shanghai Style ne rappresenta il portato più strutturato e recente, dove su uno sfondo moderno del tessuto urbano, che non rinnega gli elementi storici e culturali, si inseriscono centralità diverse e zone residenziali a bassa densità, con stili urbanistici e tipologici differenziati che citano e imitano forme storiche dell’edificato di luoghi e epoche diverse;
  5. la metropoli continentale europea (spesso lineare lungo la costa, soprattutto quella mediterranea) che sembra imitare la moderna verticalità, proprio intorno al suo nucleo originario, al bordo vincolato, riconquistato e riqualificato del centro storico (quando non in esso). Dopo il centro storico e la moderna e verticalizzata (più che verticale) area contigua, segue una brutta periferia, che lascia il posto alla periurbanizzazione, lungo il reticolo stradale, fatto di un mix più o meno funzionale, ordinato e monotono nel nord dell’ Europa e piuttosto disordinato e disorganico nel sud;
  6. Infine, ma è troppo presto per descriverla, la città della decrescita, la Smart-City intelligente e innovativa con un contatto forte con l’ecosistema e con il tessuto storico del luogo, un rapporto nuovo  con la mobilità, col lavoro, tra lo spazio pubblico e privato. Una città necessariamente orientata verso l’autogestione, l’autorganizzazione, l’autoproduzione, la cooperazione, il cohousing, l’housing sociale, il coworking. Una città orientata a ridurre la sua impronta ecologica e a rispondere al bisogno di innovazione, di sostenibilità ambientale, economica e sociale. Molti vogliono che ‘decrescita’ e innovazione “smart” siano contrapposte, ma non sarà così.

Questi modelli, forse troppo sintetici e certamente non esaustivi, servono a aprire una riflessione sul futuro, sugli scenari delle città italiane e di Torino in primo luogo.

L’ipotesi che formulo è che il modello metropolitano (a Torino implementato soprattutto dalla giunta Chiamparino-Viano) di riqualificazione dei centri storici e di modernizzazione e verticalizzazione del tessuto semiperiferico, abbia fatto il suo tempo prima ancora di essere costruito. La spinta verso la valorizzazione immobiliare, aiutata dai meccanismi perequativi e  delle ”liberalizzazioni” dei governi Prodi e Berlusconi verso un uso improprio degli oneri di urbanizzazione (utilizzabili per la gran parte per le spese correnti),  è finita nel 2008 con la crisi dei mutui ‘subprime’. Torino si trova in una situazione oggettivamente difficile tra progetti varati, con centinaia di varianti al PRG, e l’impossibilità di una loro valorizzazione, commercializzazione. Il mercato immobiliare è fermo, il piano casa voluto dal governo Berlusconi non ha prodotto alcun rilancio.  Sembra che la storia si prenda ancora una volta gioco dei suoi protagonisti: la società industriale fondata su un rapporto forte tra capitale e lavoro ha fatto esplodere il “terzo incomodo”, la rendita fondiaria; la società post-industriale che guarda più che favorevolmente alla rendita, sia essa urbana o finanziaria (i sub-prime ne hanno espresso il loro profondo legame), sta collassando sotto il crollo del valore competitivo dei territori, del valore competitivo dei flussi finanziari.

Che fare?

Fiorenzo Ferlaino, IRES-Piemonte

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