Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Istituzioni, regioni e crisi economica nazionale. Sintesi dell’intervento di apertura del XXXIII Congresso AISRe

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di: Riccardo Cappellin

EyesReg, Vol.2, N.6 – Novembre 2012.

La necessità di trovare una soluzione alla crisi economica attuale mostra il nesso stretto tra sviluppo economico, istituzioni e politiche di investimento. Il tema del congresso dell’AISRe: “Istituzioni e network territoriali e sistema paese”, tenutosi all’Università di Roma “Tor Vergata” il 13-15 settembre 2012, ci porta a sottolineare che gli studi regionali sono utili allo sviluppo delle istituzioni regionali e locali, perché consentono la conoscenza delle trasformazioni recenti, sottolineano problemi emergenti che spesso sono diversi da quelli tradizionali, individuano politiche di intervento più efficaci come anche le scelte politiche sbagliate o inutili, stimolano l’amministrazione pubblica italiana ad adeguarsi agli standard di altri paesi europei, permettono di valutare i risultati conseguiti e non ultimo fanno aumentare la fiducia dei cittadini nelle stesse istituzioni regionali e locali, la cui credibilità è stata gravemente compromessa dagli errori e abusi compiuti da molti politici regionali e locali negli ultimi anni.

Le analisi e le politiche regionali hanno accompagnato l’evoluzione delle fasi di sviluppo industriale ed economico delle regioni italiane come anche dei paesi e delle regioni europei, dal “capitalismo industriale” della grande impresa fordista degli anni ’60, al “capitalismo delle piccole e medie imprese” esportatrici dei distretti produttivi degli anni ’80, al “capitalismo dei servizi e dell’industria High Tech” degli anni 2000. Peraltro, nell’attuale ulteriore fase del “capitalismo finanziario”, la crisi finanziaria delle banche e dei debiti pubblici negli ultimi 5 anni sono una nuova sfida per le teorie e modelli delle Scienze Regionali. Mentre le Scienze Regionali si occupano della crescita economica nel medio e lungo termine e dell’organizzazione del territorio, le teorie e i modelli della macro-economia tradizionale si interessano della stabilizzazione dell’economia nel breve termine ed è quindi necessario integrare le analisi e politiche di breve periodo o di emergenza fiscale e finanziaria con le politiche di sviluppo, di investimento e di innovazione nel medio e lungo periodo. E’ importante che i responsabili delle istituzioni regionali e locali e nazionali conoscano di più le teorie e i modelli dell’economia regionale, che hanno implicazioni per le politiche economiche ben diverse dalle teorie e dai modelli macro-economici e sono in grado di spiegare in modo efficace i fattori che determinano lo sviluppo economico delle economie moderne nazionali e regionali.

Invece, nelle analisi e politiche macroeconomiche europee e nazionali, manca un’esplicita considerazione dell’interazione tra i diversi attori economici e quindi un’analisi rigorosa delle relazioni tra politica monetaria ed economia reale o delle relazioni complesse all’interno del processo che collega in sequenza offerta di moneta, credito alle imprese, investimenti privati, innovazione di prodotto e processo e infine sviluppo dell’economia reale. Il risultato inevitabile delle politiche macroeconomiche seguite nell’ultimo anno sono stati una diminuzione del PIL del 2,6% nel secondo trimestre del 2012 rispetto al 2011 (fonte: Istat, Conti Economici Trimestrali) e un aumento e non una diminuzione del rapporto debito pubblico/PIL. Non solo la capacità di spesa delle famiglie italiane è diminuita del 3,7%, facendo registrare il calo tendenziale più marcato dal 2000, ma soprattutto gli investimenti fissi lordi sono crollati in quest’ultimo anno del 9%. Inoltre, l’OCSE stima (cfr. Looking to 2060: Long-term growth prospects for the world, http://stats.oecd.org/Index.aspx?DataSetCode=EO91_LTB) che l’Italia è cresciuta nel periodo 1995-2011 solo dell’1%, meno di Francia (1,7%) e Germania (1,4%), e prevede che crescerà solo dell’1,3% nel periodo 2011-2030, meno di tutti i paesi europei, Grecia inclusa.

Non è certo una diminuzione dell’1% o del 2% dei tassi di interesse a breve che può spingere una grande impresa industriale a decidere se investire su una nuova produzione o a investire in un nuovo progetto di R&S o che fa uscire un paese da una profonda recessione. L’enorme liquidità depositata dalle banche italiane presso la BCE e l’enorme eccesso della domanda sull’offerta di obbligazioni societarie emesse recentemente dalle grandi imprese italiane sui mercati internazionali dimostrano che la ragione dei bassi investimenti non è la carenza di risorse finanziarie, ma l’incertezza economica, finanziaria ed anche sociale e politica, creata da politiche macro-economiche errate assieme all’assenza di una visione di medio e lungo periodo nelle grandi imprese private dell’industria e dei servizi. Sinteticamente, non bastano le politiche macro-economiche, come la riduzione dei tassi di interesse o quella dei deficit e debiti pubblici, per rilanciare la crescita e diminuire l’attuale enorme disoccupazione, soprattutto tra i giovani, ma ci vuole una nuova capacità di governance o di coordinamento da parte delle istituzioni e quindi nuove politiche regionali e nazionali, nei campi della industria, della salute, dell’ambiente, della cultura e del turismo. Dal lato dell’offerta, non c’è crescita della produttività e della competitività internazionale senza innovazione e senza investimenti privati e pubblici sia materiali che immateriali. Inoltre, dal lato della domanda, non c’è crescita del PIL senza crescita della domanda interna e senza crescita degli investimenti fissi lordi privati e pubblici.

Infatti, nei primi due trimestri del 2012 il PIL è diminuito del 6% rispetto ai primi due trimestri del 2007, la spesa delle famiglie del 3,8% e gli investimenti fissi lordi del 20% (fonte: Istat, Conti Economici Trimestrali). Nel periodo 2007-2012 la quota degli investimenti sul PIL è diminuita dal 21% al 18% del PIL e il crollo degli investimenti è stato il principale fattore della diminuzione del PIL. Per riavviare la crescita dell’economia italiana è necessario aumentare, tramite appropriate politiche industriali nazionali e regionali, gli investimenti fissi lordi delle imprese italiane del 15% su base annua. Questo permetterebbe un aumento del PIL pari al 2,7%, mentre le previsioni attuali sono per una continua diminuzione del PIL italiano anche nei prossimi anni. In realtà l’effetto positivo potrebbe essere anche maggiore, dato che anche i consumi privati aumenterebbero per l’effetto del moltiplicatore dei redditi.

Un aumento del 15% degli investimenti fissi lordi è pari a 45,00 miliardi di euro annuali e permetterebbe di fare ritornare la quota degli investimenti sul PIL al valore esistente nel 2007. Questo aumento degli investimenti equivale a meno di 1/5 dei 255 miliardi di euro arrivati dalla Bce tra dicembre 2011 e marzo 2012 alle banche italiane ad un tasso di appena l’1% (fonte: Repubblica, 15 luglio 2012) oppure ad appena il doppio dei 22,75 miliardi di euro che la Fiat aveva come liquidità a fine giugno 2012 (fonte: Sole 24 Ore, 9 ottobre 2012) oppure ad appena otto volte la domanda di 5,5 miliardi di euro per un bond (Isin XS0827692269) da 1 miliardo offerto dall’ENEL ad un tasso dell’5% (fonte: Financial Times, 5 settembre 2012). In questa prospettiva, grande è la responsabilità non solo delle maggiori imprese industriali e dei servizi italiane, del Governo e del sistema delle banche (ad esempio: se la BEI e la Cassa Depositi e Prestiti emettessero dei “project bonds” sui mercati internazionali), ma anche delle Regioni e dei Comuni cui spetta un ruolo insostituibile nel promuovere e facilitare gli investimenti di maggiori dimensioni nei singoli territori.

Le ricerche presentate al congresso dell’AISRe e le analisi nei rapporti annuali nazionali dei centri ricerca partecipanti alla tavola rotonda conclusiva del congresso indicano nuove opportunità di investimento privato e pubblico in: innovazione, ricerca e sviluppo soprattutto nelle “reti di imprese” grandi e piccole in settori innovativi, istruzione permanente, nuova occupazione di giovani qualificati, ritorno al lavoro di donne e lavoratori anziani, risparmio energetico, protezione da disastri naturali, soddisfazione di nuovi bisogni alimentari, turismo, attività culturali e del tempo libero, attività che promuovono la socializzazione, servizi sociali, sport, salute e sanità, trasporti regionali e periurbani e riduzione della congestione, attività non profit e del volontariato complementari a quelle di mercato, edilizia popolare, efficienza degli uffici delle amministrazioni, lotta al crimine organizzato, alla corruzione e alla evasione fiscale, ecc.. Peraltro per lanciare questi progetti di investimento non sono sufficienti le politiche fiscali e le politiche monetarie, ma sono necessarie politiche industriali e regionali.

In particolare, la dimensione finanziaria e la dimensione tecnologica delle politiche industriali e d’investimento sono strettamente legate alla dimensione territoriale. Innanzitutto, è necessario promuovere lo sviluppo delle grandi imprese nazionali e gli investimenti pubblico-privati. Ma è anche opportuno che vi sia un maggiore equilibrio tra gli obiettivi e il potere dei manager delle grandi imprese e gli interessi nazionali e assicurare un forte radicamento territoriale delle grandi imprese e della loro filiera produttiva. In secondo luogo, è necessario promuovere la competitività basata sull’innovazione delle piccole e medie imprese industriali, che è strettamente legata con lo sviluppo delle relazioni a rete nei sistemi produttivi locali. In terzo luogo, sono necessarie politiche di sviluppo nelle grandi aree urbane e regionali, che sono i luoghi ove si concentra la gran parte della popolazione, delle imprese e della produzione non solo industriale ma anche dei servizi. In queste aree si sviluppano quasi in modo endogeneo nuove produzioni, si concentra la domanda di servizi collettivi a rete e sono emersi nuovi modelli di vita e cambiamenti nei bisogni dei cittadini/utenti, che possono essere opportunità strategiche di sviluppo per nuove produzioni locali e nazionali.

Secondo un approccio di multi-level governance da un lato è necessario un programma di sviluppo europeo a medio termine, che integri la politica monetaria (BCE) e la politica dei bilanci pubblici (Commissione Europea) e dall’altro sono necessari progetti strategici territoriali e un programma di sviluppo nazionale articolato a scala regionale. Non c’è crescita degli investimenti senza progetti, competenze tecniche e organizzative e forme di “governance” o coordinamento delle istituzioni pubbliche e intermedie nelle diverse regioni e aree urbane, dato che gli investimenti necessari in una società post-industriale come quella italiana sono di natura complessa e devono soddisfare non bisogni individuali ma bisogni collettivi e frammentati, che solo se vengono aggregati su un dato territorio specifico possono attivare l’offerta o gli investimenti delle imprese private o pubbliche. Le città e le regioni sono più vicine alle persone e alle imprese e possono meglio dei governi nazionali aggregare i bisogni e le capacità locali delle persone e delle imprese e stimolare i consumi e gli investimenti. Pertanto una strategia di sviluppo economico nazionale non può realizzarsi senza un ruolo attivo delle città e delle regioni nella proposta e organizzazione di grandi progetti e la responsabilità non può essere lasciata solo ai governi nazionali, cui spetta invece la verifica delle compatibilità finanziarie e macroeconomiche.

Riccardo Cappellin, Università di Roma Tor Vergata

cappellin[at]economia.uniroma2.it

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1 Comment

  • vito ayroldi

    Il testo contiene un’analisi corretta soprattutto in relazione all’indispensabile approccio multilivello. Se una lacuna anzi un’assenza si rintraccia in questi lavori tutti molti simili è nella vaghezza delle prescrizioni. Innovazione ricerca e sviluppo d’accordo. Le reti d’aziende d’accordo. Ma biosgna avere studi quantitativi che aiutino a capire in relazione alla competizione internazionale su quali specializzazioni produttive puntare in via prioritaria nei diversi territori perchè con un alto grado di competitività e quali assistere affinchè migliorino la loro deficitaria capacità competitiva o di presenza sui mercati. Diversamente innovazione R&D rischiano di diventare come lo sono stati spesso sino adesso delle belle parole dietro le quali ha allignato lo spreco assoluto di risorse pubbliche che ci ha condotto dove siamo.Occorrono inoltre delle metriche per dterminare il tasso di rendimento a lungo terminie degli investimenti.Sotto questo aspetto il CUP (codice Unico Progetto) è un importante passo in avanti. Non ho alcuna idea di quali siano le basi dati che raccolgono le informazioni relative e sarebbe interessante sapere come e se è possibile accedervi.
    Cordiali saluti,
    Vito Ayroldi

 
 

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