Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Il Mezzogiorno oggi: una questione civile

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di: Domenico Cersosimo

EyesReg, Vol.2, N. 1 – Gennaio 2012.

La dimensione economica continua a dominare il residuo di analisi e di dibattito pubblico sul Mezzogiorno. L’incapacità a crescere è considerata la malattia inguaribile del Sud, la patologia che modella comportamenti, aspettative, dotazioni civili e qualità della vita . Prevale un’idea tardo-fordista: l’economia come dominus del cambiamento, la crescita come totem della trasformazione tout court. Il deficit di crescita economica non è tuttavia un problema che riguarda solo il Mezzogiorno. A crescere pochissimo da più di un decennio è l’intero Paese, dal Piemonte alla Sicilia. Oggi il problema del Sud è un altro e più acuto: riguarda la sottodotazione e la bassa qualità di servizi essenziali per la vita dei cittadini, immotivabili per uno stato nazionale.

I dati sono impietosi. Nonostante gli avanzamenti realizzati nel corso dei decenni post-unitari e il raggiungimento di un plateau fisiologico per diversi indicatori di benessere, l’esclusione sociale e civile dei meridionali è tuttora intensa e generalizzata. Nel Sud è meno garantito il diritto alla vita. I meridionali hanno una probabilità più che doppia dei nordestini di subire o perire di omicidio, patire un’estorsione, essere sequestrati, rapinati. I ventincinquenni laureati sono 14 ogni 100 nel Sud e 20 nel Nord, mentre i giovani tra 20 e 29 anni con una laurea in scienza e tecnologia solo 8 ogni mille contro quasi 14 nel Nord. Oltre un terzo dei quindicenni meridionali ha scarse competenze in matematica (un quinto nel Nord) e più di un quarto in lettura (15% nel Nord). Meno del 16% dei comuni calabresi offre servizi per l’infanzia contro il 70% del Veneto, cosicché appena 2,7 bambini calabresi ogni 100 può utilizzare servizi a loro dedicati contro 16 in Lombardia. Un cittadino meridionale deve aspettare circa 600 giorni in più rispetto a un connazionale che vive in una regione del Nord-ovest per arrivare alla conclusione di un procedimento di cognizione ordinaria e quasi 700 in più per una causa di lavoro. Un tarantino è costretto a subire un’attesa di ben sette volte maggiore di un torinese per vedere la conclusione di una causa previdenziale. Veri e propri tempi geologici sono necessari per giungere alla fine di un procedimento esecutivo immobiliare: in media 2.322 giorni (più di 6 anni!) al Sud e 862 giorni nel Nord-est; poco più di un anno a Bolzano e circa 11 anni a Reggio Calabria. Solo un ultra-sessantacinquenne siciliano su 100 usufruisce di assistenza integrata domiciliare (Adi) contro 9,3 in Veneto. In Campania il 62% delle partorienti subisce un parto cesareo, un valore più che doppio rispetto al Veneto e alla Lombardia. Due terzi delle famiglie meridionali hanno difficoltà a raggiungere il pronto soccorso e la metà a raggiungere il posto di Polizia o dei Carabinieri (contro un terzo nel Nord). 7 pensionati meridionali su 10 devono aspettare più di 20 minuti nella posta per ritirare la pensione (poco più del 3 su 10 nel Nord) e circa un terzo degli abitanti nel Sud deve attendere oltre 20 minuti per usufruire dei servizi bancari (il 4,7% nel Nord-est). Più della metà dei calabresi lamenta di non poter bere l’acqua di rubinetto a fronte del 3,1% delle famiglie trentine e un terzo denuncia irregolarità nell’erogazione dell’acqua contro rispettivamente l’1,7 e l’1,9% di quelle trentine e venete.

Questi e altri gap civili influenzano pesantemente l’esistenza dei meridionali, soprattutto quella dei meno abbienti che non hanno redditi adeguati per acquistare servizi di mercato, la crescita della competitività del sistema economico locale, nonché i processi identitari e d’appartenenza alla comunità nazionale. Standards di qualità particolarmente bassi delle prestazioni pubbliche contribuiscono anche ad alimentare rassegnazione e sfiducia generalizzata nei confronti delle istituzioni locali e, a cascata, a deprimere ulteriormente la già modesta dotazione di capitale sociale per lo sviluppo.

Non sempre la bassa qualità dei servizi forniti dalle amministrazioni pubbliche meridionali è legata a carenze nel volume di spesa, anche se in molti casi, soprattutto per i servizi sociali comunali, il deficit di performances è fortemente correlato ad una spesa assolutamente insufficiente, peraltro in ulteriore contrazione negli ultimi anni a causa dei drastici tagli ai trasferimenti centrali agli enti locali. Influisce negativamente la più bassa dotazione infrastrutturale e tecnologica, l’inefficienza gestionale e, non di rado, le distorsioni nella funzione obiettivo dei servizi: l’ospedale prioritariamente come sbocco occupazionale, bacino di consenso elettorale, business affaristico e solo alla fine del circuito perverso come presidio di salute e di cura.

Scarti territoriali di civiltà elevati e persistenti sono socialmente insostenibili per uno stato unitario. Differenze troppo marcate in termini di accessibilità, dotazione e qualità dei servizi scolastici, sanitari e giudiziari possono compromettere l’unità nazionale più del divario di reddito. E’ infatti assai difficile che si rompa il Paese a causa del dualismo economico dal momento che cittadini e imprese del Nord beneficiano di solide convenienze, reali e simboliche, dal Sud che non cresce: intenso drenaggio il capitale umano meridionale qualificato; importante area di sbocco di merci e servizi prodotti al Nord; Sud come ”altro interno” a cui addossare tutti i guasti e le malattie italiane. Diversamente, lo Stato ha molte più difficoltà a mantenere la sua configurazione unitaria in presenza di così profonde e immotivate divaricazioni in termini di soddisfazione di diritti di cittadinanza tra settentrionali e meridionali. D’altro canto, la ragion d’essere di uno stato unitario è proprio quella di offrire a tutti i suoi cittadini eguali servizi di base, a prescindere dai loro luoghi di residenza e dai loro redditi.

Non esistono connessioni causali unidirezionali tra sviluppo economico e sviluppo civile, tantomeno prescrizioni di policy basate su una rigida sequenza temporale/funzionale tra le “due” forme di sviluppo. Non c’è un primum mobile che imprime a tutto il sistema movimento e velocità: la chimica della crescita, come è noto, è un’intricata mescolanza di interazioni ed evoluzioni multiple tra fattori economici, socio-politici e storico-geografici, senza un prima e un dopo.
Nella catena causale strumenti-obiettivi delle politiche di sviluppo del passato, la priorità è stata riservata all’industria, in particolare alla grande industria “motrice” esogena: la sola che avrebbero potuto inoculare direttamente nella comunità meridionale nuove razionalità d’azione, nuove classi, nuovi atteggiamenti sociali, e indirettamente favorire la nascita di piccole e medie imprese medianti i legami a monte e a valle dell’impianto motrice, secondo le indicazioni dei modelli rosenstein-rodaniani del big push industriale. A seguire, la diffusione di figure sociali “moderne” avrebbe facilitato il cambiamento di amministrazioni pubbliche, della politica e delle culture locali, alimentando così il circolo virtuoso della modernizzazione economica e sociale.

L’insorgenza, nell’ultimo ventennio, di modelli di sviluppo place-based, e la riconsiderazione critica dell’esperienza di modernizzazione eterodiretta, ha favorito, anche in Italia, l’avvio di una nuova politica regionale che di fatto rovescia il rapporto strumenti-obiettivi: l’idea cardine adesso è incidere direttamente sulla società, rafforzare le relazioni fiduciarie, incentivare le reti interistituzionali, ovverosia cambiare permanentemente il contesto socio-istituzionale e per questa via conseguire lo sviluppo economico. Dunque, secondo la nuova politica territoriale, non è lo sviluppo che genera la disponibilità di fattori di contesto, al contrario, sono questi ultimi a rappresentare prerequisiti essenziali per la crescita: una strada radicalmente diversa da quella della vecchia politica compensativa, basata su generosi, ma spesso inefficienti e inefficaci, incentivi pubblici alle imprese sotto forma di contributi in conto capitale e in conto interessi o in crediti di imposta. Migliorare i servizi pubblici per i cittadini e per le imprese e garantire equità di disponibilità territoriale di servizi di base rappresentano, per la nuova politica, le leve strategiche sia per accrescere il benessere dei meridionali sia per creare nuove e più promettenti capacità di attrazione di nuove imprese e di nuova crescita economica locale, oltre che favorire l’emersione di strategie d’azione più innovative nelle classi dirigenti, segnatamente in quelle politiche e amministrative.

Da più di un quindicennio però le politiche di sviluppo, vecchie e nuove, sono di fatto scomparse dall’agenda politica italiana, mentre nel senso comune si sono rafforzate le comode e rassicuranti rappresentazioni stereotipate del Sud come area malata e come capro espiatorio di tutti i guasti nazionali. Solo negli ultimi mesi, a fronte di una crisi economico-finanziaria grave e persistente, sono riaffiorati pallidi discorsi pubblici sulla necessità della crescita e sugli strumenti per incoraggiarla.

La crescita è ovviamente molto importante, ma non è la panacea di tutti i mali. La riduzione del divario economico Nord-Sud è altrettanto importante, ma forse più urgente e necessario è la riduzione del divario civile. E’ insostenibile nel tempo l’unità politica e istituzionale di un paese con livelli di servizi essenziali così marcatamente differenti per disponibilità, accessibilità e qualità: nell’Italia d’oggi un neonato, una mamma, uno studente, un ammalato, un anziano che abita al Nord può fare riferimento ad un’offerta di servizi di base significativamente più alta e di migliore qualità di un neonato, una mamma, uno studente, un ammalato, un bambino, un anziano che abita al Sud. Per non parlare di un giovane disoccupato, che nel Mezzogiorno è costretto ad una mortificazione civile impareggiabile. Un paese così iniquo in termini di diritti di cittadinanza non negoziabili rischia la lacerazione e la rottura, più delle differenze in termini di reddito, più del dualismo economico.

Domenico Cersosimo (Università della Calabria)

[Fotografia di Silvia Destito]

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