di: Aurelio Bruzzo
EyesReg, Vol.2, N. 1 – Gennaio 2012.
In un libro pubblicato qualche anno fa l’analisi di una considerevole quantità di dati, di diversa natura, rilevati per i paesi aderenti all’OCSE, oltre che per i singoli stati degli U.S.A., ha portato gli autori a sostenere che alcuni gravi problemi socio-demografici e sanitari come la speranza di vita, il rendimento scolastico, la salute fisica, l’obesità, la deprivazione, la violenza, ecc., si accompagnano e/o sono riconducibili alle disuguaglianze reddituali che si registrano all’interno di tali paesi, a prescindere dal loro livello di sviluppo economico (Wilkinson, Pickett, 2009).
Appare abbastanza evidente l’opportunità di verificare se esiste una qualche relazione fra la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e il livello di effettivo benessere rilevabili in ciascuna delle regioni italiane, anche in considerazione del fatto che la grave crisi economico-finanziaria in corso sembra comportare – fra le sue varie implicazioni – proprio una preoccupante accentuazione delle disparità socio-economiche. Pertanto, qui di seguito si replica per l’Italia l’esercizio condotto nel libro citato, ma a un livello territoriale inferiore, cioè quello regionale, che fra l’altro appare del tutto trascurato negli studi svolti su questi temi dalle principali organizzazioni internazionali.
Ovviamente anche il metodo impiegato tende a coincidere con quello adottato da Wilkinson e Pickett, compatibilmente però con le variabili per le quali si dispone di dati adeguati per le regioni italiane. Più precisamente, si determina la relazione fra il grado di disuguaglianza reddituale, misurato attraverso l’indice di concentrazione di Gini [1], e i valori assunti dalle variabili di natura socio-demografica e sanitaria considerate a livello regionale, in corrispondenza di vari anni compresi nello scorso decennio.
Gli indicatori cui si è fatto ricorso per le regioni italiane in alcuni casi sono diversi da quelli utilizzati dai due ricercatori anglosassoni, ma più numerosi, sebbene si siano esclusi gli indici riguardanti l’occupazione e la disoccupazione totale per la presumibile relazione diretta con il livello del reddito regionale [2]. Infine, si precisa che i dati impiegati per le elaborazioni condotte, sono tutti di fonte ufficiale, in quanto desunti dal primo Rapporto sulla coesione sociale elaborato dall’ISTAT, in collaborazione con l’INPS (ISTAT, 2010).
La disuguaglianza del reddito tra le regioni italiane
I risultati ottenuti per il periodo 1990-2003 da uno studio condotto sulla controversa relazione rilevabile fra disuguaglianza e crescita nelle regioni italiane (Bianchi e Menegatti, 2005), sembrano confermare la congettura formulata dalla teoria economica più recente, secondo cui una maggiore disuguaglianza nella distribuzione personale dei redditi tende a ridurre la crescita reale. Dall’esame dei possibili meccanismi d’influenza della disuguaglianza sul processo di crescita emerge poi che i fattori più rilevanti nello spiegare l’evidenza empirica riscontrata in tale studio sono il canale connesso all’instabilità sociale e, soprattutto, quello relativo al razionamento del credito. Infine, si suggerisce che una diminuzione della disuguaglianza nelle regioni meridionali, connessa all’attuazione di opportune e più efficaci politiche redistributive all’interno di tale circoscrizione territoriale, potrebbe favorire una riduzione del ritardo nello sviluppo economico del Mezzogiorno italiano.
A fini sia di aggiornamento sia d’integrazione delle precedenti analisi empiriche si può fare riferimento ai dati recentemente pubblicati dall’ISTAT: nel 2007, ad esempio, il valore dell’indice di Gini (calcolato escludendo dal reddito i fitti imputati) [3] era pari a 0,309 (ISTAT, 2009), evidenziando un livello di diseguaglianza piuttosto elevato (anche se in leggera riduzione rispetto a quello dell’anno precedente, pari a 0,322). Procedendo per singole regioni, si rileva che l’indice di diseguaglianza dei redditi sul territorio italiano variava da un minimo di 0,244, in provincia di Trento, a un massimo di 0,334, in Campania: Come risulta dalla mappa sottostante, tra le regioni con maggiori livelli di diseguaglianza figurano proprio quelle caratterizzate dai redditi mediani più bassi, vale a dire – oltre alla Campania – Calabria (0,318), Sicilia (0,317) e Lazio (0,316), mentre quelli meno marcati si osservano nelle più ricche regioni settentrionali e, in particolare, oltre alla provincia di Trento, nel Veneto (0,262) e in Friuli Venezia Giulia (0,270) (Mappa 1).
Mappa 1: Indice di diseguaglianza nelle regioni italiane.
Sembra pertanto di poter ribadire quanto recentemente sostenuto da Franzini (2010), secondo cui il contributo recato dal Mezzogiorno alle disuguaglianze del paese è molto consistente: in particolare, le elevate disuguaglianze esistenti all’interno di questa parte del territorio nazionale vanno considerate come la conseguenza di una forte concentrazione di quei fattori che in genere spingono le disuguaglianze verso l’alto e che comprendono un elevato tasso di disoccupazione, la presenza più o meno diffusa di settori produttivi ad alta disuguaglianza interna, l’inefficacia delle politiche redistributive, e così via. Soprattutto in questo senso sembra di poter parlare per l’Italia di una specificità territoriale nella disuguaglianza dei redditi [4].
Una verifica empirica per le regioni italiane
Poiché si è pienamente consapevoli delle profonde differenze esistenti tra un’analisi condotta a scala internazionale e una a scala regionale, la verifica empirica effettuata da Wilkinson e Pickett può essere replicata per le regioni italiane, purché si tenga presente che in quest’ultimo caso la situazione rinvenibile per un determinato periodo di tempo può derivare anche dalla mobilità territoriale di persone e famiglie registrata negli anni precedenti, soprattutto se questa è avvenuta in una misura non trascurabile, tale cioè da modificare i comportamenti sociali storicamente consolidati.
Ciò nonostante, risulta estremamente interessante verificare le implicazioni derivanti dalle disuguaglianze in termini di concentrazione dei redditi presenti in ciascuna regione italiana, anche in considerazione dei profondi, quanto prolungati squilibri territoriali che contraddistinguono l’Italia dal punto di vista socio-economico. A tal fine, ci si è avvalsi – come già accennato – dei dati diffusi tramite il primo Rapporto sulla coesione sociale, sebbene in esso non siano individuabili valori regionali per tutti i fenomeni socio-sanitari considerati dai due studiosi anglosassoni. Pertanto, anche al fine di rendere più attendibile la successiva verifica, il campo d’indagine è stato esteso a tutte le problematiche per le quali sono risultati disponibili dati aggiornati a livello regionale [5]. Inoltre, le variabili considerate sono state suddivise in due sottogruppi: le variabili di natura socio-demografica e quelle di natura strettamente sanitaria. Nel complesso si tratta di una quindicina di indicatori dei quali almeno sei coincidono con quelli adottati dai due studiosi inglesi, così da consentire un confronto fra i risultati ottenuti. Conseguentemente, anche il metodo di elaborazione cui si è ricorsi è del tutto analogo a quello utilizzato da Wilkinson e Pickett, consistendo in una semplice verifica dell’esistenza di una relazione tra la sperequazione dei redditi e i vari problemi socio-demografici e sanitari considerati. L’unico aspetto che differenza in modo sostanziale il metodo qui impiegato è che – come già accennato – le relazioni rilevate non si collocano a livello internazionale, bensì a quello interregionale.
Come emerge con una certa evidenza dai valori ottenuti per il coefficiente di correlazione che è stato calcolato fra le 15 variabili socio-demografiche e sanitarie considerate per l’Italia e l’indice di concentrazione dei redditi a livello regionale [Tabella 1], le ipotesi formulate a livello internazionale da Wilkinson e Pickett sembrano trovare una sostanziale conferma.
Infatti, per la maggior parte delle problematiche appare un netto legame con le disuguaglianze del reddito, tanto che nelle regioni italiane in cui il valore dell’indice di Gini appare più elevato, cioè quelle meridionali, risulta che:
– l’indice di rendimento scolastico degli alunni è nettamente più basso;
– il tasso di abbandono scolastico è discretamente più elevato;
– il tasso di occupazione femminile è nettamente inferiore;
– il numero delle famiglie deprivate è notevolmente più elevato;
– il numero degli omicidi è maggiore sebbene solo lievemente;
così come:
– la speranza di vita sia alla nascita che a 80 anni è notevolmente inferiore;
– il tasso di mortalità infantile è decisamente più elevato;
– il numero delle persone obese è leggermente maggiore;
– e infine è lievemente minore il numero degli utenti delle strutture pubbliche impegnate nella lotta alla tossicodipendenza [6].
Tabella 1 – Coefficienti di determinazione (r2) ottenuti per la relazione fra le variabili considerate e l’indice di Gini a livello di regioni italiane. Fonte: nostre elaborazioni su dati ISTAT (2010)
Gli unici problemi socio-demografici e sanitari per i quali invece non risulta una relazione col segno atteso sono: il tasso di scolarità; il numero dei diplomati rispetto al totale della popolazione di 19 anni; i tassi di separazione e di divorzialità; e infine il numero dei decessi per suicidio [7]. In alcuni di questi casi, tuttavia, la minore dipendenza dalla disuguaglianza dei redditi a nostro avviso è solo apparente oppure potrebbe trovare una spiegazione nelle particolari condizioni sociali o nei diversi comportamenti individuali ancora prevalenti nelle regioni del Mezzogiorno.
In altre parole, anche gli indicatori che sembrano deporre a favore della società meridionale, in realtà tendono a evidenziare ulteriori situazioni problematiche, nei cui confronti però le popolazioni interessate sembrano manifestare ormai un elevato livello di assuefazione.
Aurelio Bruzzo Dipartimento di Economia Istituzioni Territorio – Università di Ferrara
Riferimenti Bibliografici
Bianchi C., Menegatti M. (2005), Disuguaglianza e crescita: una analisi empirica applicata all’esperienza recente delle regioni italiane, Quaderno del Dipartimento di Economia politica e metodi quantitativi – Università di Pavia, n. 175 (10-05)
Franzini M. (2010), Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili, EGEA. Milano
ISTAT (2009), Condizioni di vita e distribuzione del reddito in Italia. Anno 2008, Statistiche in breve, dicembre
ISTAT (2010), Rapporto sulla coesione sociale 2010, Roma
Wilkinson R., Pickett K. (2009), The Spirit level. Why more equal societies almost always do better, Penguin Books, London.
Note
[1] Come noto, l’indice di Gini esprime una misura della concentrazione di variabili quali il reddito, in modo da valutare come esse si distribuiscano tra la popolazione. L’indicatore assume valori compresi tra zero, nel caso in cui tutti i soggetti percepiscano lo stesso reddito e si verifichi così una perfetta equità nella distribuzione, e uno, nel caso opposto di totale diseguaglianza.
[2] L’accezione di reddito qui considerata è quella del reddito familiare netto che è pari alla somma dei redditi da lavoro dipendente e autonomo, di quelli da capitale finanziario e reale (che non comprendono il reddito figurativo delle abitazioni occupate dai proprietari, cioè l’affitto imputato), delle pensioni e degli altri trasferimenti pubblici e privati ricevuti dalle famiglie, al netto del prelievo tributario e contributivo e di eventuali imposte patrimoniali.
[3] Considerando nel reddito anche i fitti imputati, la diseguaglianza assume un valore inferiore (pari a 0,286), in quanto tale inclusione produce due effetti opposti: da un lato, amplia la diseguaglianza fra i redditi delle famiglie proprietarie e quelli delle famiglie di inquilini, ma dall’altro contribuisce a ridurre la diseguaglianza complessiva, perché gli affitti imputati sono distribuiti fra i proprietari in modo meno diseguale rispetto agli altri redditi.
[4] Tuttavia, va anche precisato che il Mezzogiorno aggrava il problema delle disuguaglianze reddituali presenti nel nostro paese, ma non lo crea, giacché di fatto tutta l’Italia è immersa in disuguaglianze comparativamente assai elevate.
[5] Si avverte che il perseguimento di tale obiettivo ha comportato – come del resto nel lavoro dei due già più volte citati studiosi – la non perfetta coincidenza del periodo temporale di riferimento delle variabili: in alcuni casi, infatti, i dati arrivano al 2009, mentre in altri solo al 2008.
[6] Il valore ottenuto per tale indicatore viene valutato negativamente, giacché si ritiene che esso segnali più una minore dotazione di strutture destinate ad assistere gli individui affetti da tossicodipendenze all’interno delle regioni meridionali, che una minore diffusione di tale problema tra la popolazione delle stesse regioni.
[7] Pertanto, a tale discordanza si dovrà dedicare in futuro un approfondimento d’indagine, al fine di verificare se essa corrisponda a una specifica caratteristica del nostro paese o se, invece, sia riconducibile alla forzata lacunosità del metodo impiegato per le elaborazioni.