di: Giovanna Segre
EyesReg, Vol.1, N. 2 – Luglio 2011.
L’arte e la cultura sono da molto tempo oggetto di analisi nelle discipline umanistiche e filosofiche. L’avvicinamento all’analisi economica è invece relativamente recente, e ha da poco superato il veto di coloro che sospettavano che gli economisti, con l’affrontare il tema, potessero pretendere di sostituirsi ai giudizi estetici e culturali. La scienza economica, di tali giudizi prende invece soltanto atto, e cerca di spiegare ciò che si sceglie, il perché, e come si possano allocare mezzi scarsi aventi usi alternativi in modo da soddisfare bisogni individuali e collettivi nella produzione e nel consumo dei beni culturali.
La nascita di questa disciplina si può datare agli inizi degli anni ’70, dopo che nel 1966 William J. Baumol e William G. Bowen, due economisti americani incaricati di studiare le cause del continuo aumento del fabbisogno finanziario dei teatri, pubblicarono il libro “Performing Arts: The Economic Dilemma”, il testo a cui convenzionalmente si fa risalire l’inizio degli studi economici in ambito culturale. Ma è David Throsby, un economista australiano, che, con l’articolo “The Production and Consumption of the Arts: A View of Cultural Economics” pubblicato nel 1994 sul Journal of Economic Literature, permette alla materia di ottenere dall’accademia internazionale il riconoscimento istituzionale di disciplina economica.
In Italia gli economisti che hanno dedicato le proprie ricerche (anche) all’arte e alla cultura, in generale alimentati in questo da una intensa passione personale, hanno pubblicato in realtà i primi lavori già negli anni ’80, ma è in effetti intorno alla metà degli anni ’90 che la maggior parte di essi ha maturato le intuizioni più rilevanti e ha definito i ragionamenti maggiormente significativi, applicando gli strumenti più avanzati della ricerca economica al settore culturale (una panoramica di tale evoluzione del pensiero economico è presentata da W. Santagata, G. Segre e M. Trimarchi nel saggio “Economia della cultura: la prospettiva italiana”, pubblicato su Economia della Cultura, N. 4/2007, la rivista italiana di settore). E così, negli anni, gli studiosi hanno definito e analizzato il tema dei distretti culturali, il ruolo che hanno i beni culturali nella domanda turistica, quali sono le metodologie per misurare in termini economici il valore dei beni culturali, come si valuta l’andamento dei prezzi nel mercato dell’arte contemporanea o in quello dell’arte etnica, come si devono comportare i manager di un’istituzione culturale, pubblica o privata che sia, come deve essere composta la legislazione fiscale per la produzione e circolazione di opere d’arte, o, ancora, come devono essere distribuite le funzioni tra Stato ed enti locali e come si può o si deve finanziare la cultura. Questi sono solo alcuni degli argomenti indagati ed è chiaro che non si può essere esaustivi in poche righe.
Per fare il punto sul dibattito che attualmente alimenta il mondo politico e accademico può essere utile, però, raccogliere gli studi dedicati al ruolo che ha la cultura nel sistema economico in tre modelli. Il primo modello, il più tradizionale e noto, considera i beni e le attività culturali nel contesto della visione welfaristica secondo cui la cultura rappresenta un “bene meritorio” e come tale meritevole di finanziamento pubblico a prescindere dalla presenza o meno di una esplicita domanda di consumo di beni culturali da parte degli individui (esattamente come nel caso dell’istruzione scolastica). Questa visione si completa con la constatazione che la cultura ha forti connotati di bene pubblico, non rivale, indivisibile e non escludibile, e che, anche in funzione di ciò e delle esternalità positive che conseguentemente porta con sé, essa debba essere sussidiata mediante finanziamenti pubblici. Il secondo modello, per contro, si riferisce all’esistenza di vere e proprie industrie che producono o distribuiscono beni culturali seguendo i principi del mercato. Si pensi alle major cinematografiche o discografiche, ma anche alle case editrici o al mercato delle aste di dipinti, sculture o pezzi d’antiquariato o ancora all’industria del turismo culturale. In tutti questi casi siamo di fronte a beni “privati”, rivali ed escludibili secondo il gergo degli economisti, e quindi a oggetti per i quali il mercato è in grado di attribuire un prezzo e di farselo pagare. E non c’è spazio, in questo senso, per invocare l’intervento pubblico.
Ma il ragionamento si complica un po’ quando si affaccia (recentemente) il terzo modello che si concentra sul ruolo della cultura per la crescita economica, un motore attraverso il quale perseguire uno sviluppo di livello qualitativamente più elevato. Qui, in teoria, sono presenti entrambi gli aspetti che definiscono i due modelli precedenti. Da un lato conta molto la componente di bene pubblico e meritorio che è sempre presente in un bene culturale, sia in quelli propriamente pubblici quali il patrimonio culturale espresso da un centro storico di valore, da un’installazione di arte pubblica o da una musica diffusa alla radio o suonata per la strada, sia in quelli prodotti e venduti secondo logiche di mercato (non dimenticando che si sta comunque parlando di beni culturali). Dall’altro, si guarda alla produzione di beni e servizi culturali come a un importante settore dell’economia in termini di fatturato, valore aggiunto e occupati. In quest’ultima direzione vanno per esempio le conclusioni del conosciutissimo Rapporto Figel presentato dalla Commissione Europea nel 2006, secondo cui il settore culturale e creativo dei Paesi europei nel 2003 ha generato un fatturato che ha superato 654 miliardi di euro (mentre, per confronto, quello dell’industria automobilistica, un’industria universalmente riconosciuta miliare per il sistema economico, nel 2001 era stato pari a 271 miliardi di euro) e ha contribuito a costituire il PIL per quasi il 3%. Anche in Italia il modello è confermato: secondo il Libro Bianco sulla Creatività, curato da Walter Santagata, se si considera l’intera filiera produttiva, nel 2004 il macrosettore delle industrie creative vale il 9,3% del PIL italiano e assorbe quasi il 12% del totale degli occupati del nostro Paese (più di 2,8 milioni di lavoratori).
E’ stato importante affermare questa visione in modo da togliere dall’angolo in cui la cultura, anche perché spesso tenuta in una dimensione elitaria, rischiava di rimanere relegata quando veniva accettata quale attore del sistema solo perché meritoria. Detto ciò, non si può tuttavia ora dimenticare che questi dati sono il risultato della combinazione dei due modelli percedenti, e non, come ultimamente sta prevalendo nella lettura che del fenomeno viene fatta da un numero crescente di enti e amministratori del settore pubblico, del solo secondo modello, ovvero della capacità di generare reddito sufficiente a mantenersi in un’economia di mercato.
Quando si ragiona intorno alle potenzialità della leva culturale per lo sviluppo economico di un’area, regione, città, piccolo borgo, sito archeologico, o finanche paesaggio che sia, il concetto di cultura da abbracciare deve essere quello, richiamato nella nozione di “capitale culturale” introdotta da David Throsby nel 2001, in cui coesistono la dimensione tangibile (opere d’arte, manufatti, edifici, …) e quella intangibile (insieme di atteggiamenti, simboli, credenze, usi e costumi, valori e tradizioni comuni o condivisi). Entrambe le dimensioni entrano nella produzione di quei beni basati sulla creatività e sulla attività intellettuale che rappresentano la chiave per la valorizzazione delle risorse locali e dunque della crescita economica e che, nonostante lo spirito universale della cultura, sono sempre fortemente legati a un luogo preciso. Quando si fa riferimento al patrimonio culturale costituito da beni materiali, il tema è chiaro giacché monumenti, edifici di alto valore architettonico o storico, musei, ecc. sono “quelli” di un certo luogo: dal ponte dei sospiri di Venezia, al Guggenheim di Bilbao, al Centre Pompidou di Parigi, al Tempio di Borobudur. Ma anche la cultura nella sua espressione immateriale è profondamente legata al territorio in cui viene concepita. Il patrimonio culturale e museale, l’intero ambito delle performing arts, il design industriale, la moda, il cinema, la produzione di arti e mestieri, i complessi eno-gastronomici traggono tutti ispirazione da un qualche legame tangibile o intangibile con la cultura espressa dalla comunità locale d’origine ed è così che la creatività si traduce in cultura, e la cultura in beni e servizi di valore economico. Ma la corretta spinta a generare valore economico attraverso la cultura non può e non deve appiattirsi sull’offerta di quei soli beni e servizi per i quali esistono un mercato e un prezzo.
Giovanna Segre, Università IUAV di Venezia