Giornale on-line dell'AISRe (Associazione Italiana Scienze Regionali) - ISSN:2239-3110
 

Cultural commons: una nuova frontiera dello sviluppo socio-economico locale

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di: Sabrina Pedrini e Pier Luigi Sacco

EyesReg, Vol.10, N.4, Luglio 2020. Numero Speciale: “Nuovi orizzonti di ricerca per le Scienze Regionali”

La criticità di questi primi mesi del 2020 ha messo in mostra la vulnerabilità del sistema organizzativo italiano e rappresenta un momento importante per ripensare il nostro modello di sviluppo. Il tempo presente si presta a una considerazione sui valori dominanti e gli stili di vita che hanno prodotto la crisi che ci troviamo oggi ad affrontare. Pensare oggi alla centralità della cultura e al ruolo che essa deve avere nella definizione degli stili di vita e dei modelli organizzativi vuole dire, quindi, concentrarsi sugli strumenti cognitivi che possono permettere a una comunità, più o meno estesa, di reagire agli shock e a come questa possa sperimentare nuovi percorsi di crescita.

La riflessione parte dall’idea che riposizionare la cultura nello spazio che le spetta, ovvero al centro della nostra visione di sviluppo, sia un segnale di sensibilità intellettuale nei confronti dei cambiamenti in atto e di lungimiranza rispetto alle sfide che ci attendono, anche in termini di crescita. Partendo dalla considerazione della cultura come new common (Hess, 2008), andremo a illustrare il suo impatto in termini di capitale cognitivo e di elaborazione di competenze critiche e set valoriali; da qui un cambio di comportamento e paradigma che conduce a nuovi livelli di sviluppo umano (Sacco et al., 2014) saldamente ancorato al territorio. In questa prospettiva, un modello di sviluppo a base culturale può essere generativo di benessere per la collettività, la cui valenza resta ancora per molti versi poco esplorata al di là delle visioni più strumentali concentrate primariamente sugli impatti economici diretti della produzione e dell’accesso culturale.

Perché è importante partire dalla natura di common della cultura? Partendo dalla fondante nozione di Eleonor Ostrom, le risorse comuni identificano una classe di beni definite da due caratteristiche: una difficile escludibilità dei potenziali beneficiari e un alto grado di sotto-trattabilità (ovvero rivalità dei consumi) (Ostrom et al., 1994). Questa condizione porta a uno sfruttamento eccessivo del bene comune, in cui le esternalità negative derivanti dal comportamento opportunistico individuale potrebbero avere effetti negativi sulla resilienza del bene stesso (Levy-Strauss, 1952). La cultura (nelle sue diverse manifestazioni) non soffre di una capacità di carico limitata, ma al contrario essa ha una capacità pressoché infinita di auto-rigenerazione: il consumo di cultura non ne riduce la consistenza totale per l’altro e non è rivale negli usi, ma a differenza di un bene pubblico, richiede gestione e protezione per essere sostenuta ed essere prodotta in un quantitativo socialmente ottimale (1). Secondo la tradizionale classificazione dei beni (Samuelson, 1954; Ostrom et al., 1994), i beni culturali, per le caratteristiche sopra descritte, sono simili ai beni pubblici, in quanto non sono sottrattivi, ma hanno appunto una capacità di produzione potenzialmente illimitata. Di conseguenza, le risorse culturali non sono soggette né all’esaurimento né allo sfruttamento eccessivo, ma devono comunque essere protette dall’erosione che deriva dalla trappola della povertà cognitiva e dalla sottoproduzione che ne può conseguire. La produzione culturale, e soprattutto quella di qualità la cui fruizione richiede spesso un’adeguata “esperienza pre-esistente”, deve essere sostenuta per raggiungere una massa critica tale da renderla autosufficiente (Bravo, 2010). Ostrom e Hess (2003) enfatizzano il ruolo della conoscenza come bene comune, con i conflitti che genera in termini di social dilemma e tutela del diritto della proprietà intellettuale. E in quanto bene comune globale, la cultura deve essere accessibile in condizioni di equità e inclusività (Hess, 2008). Si presenta allora qui una prima, notevole contraddizione: malgrado la loro natura di commons, l’arte e la cultura sono poco praticabili alla maggior parte delle persone che soffrono di una qualche forma di svantaggio (per esempio reddituale, ma spesso anche esperienziale ed educativo), quando invece l’accessibilità alle attività artistiche e culturali, sia dal lato della produzione che da quello del consumo, sono parte essenziale del “diritto di cittadinanza” di tutti. Se consideriamo l’accesso alla produzione/consumo di contenuti culturali un diritto cui tutti devono potere accedere secondo requisiti di equità e uguaglianza, allora riconosciamo come l’estensione di questo diritto sia una precondizione al miglioramento della qualità della vita delle persone, anche in termini di acquisizione di nuove libertà positive.

Questo rinnovato spazio di libertà non è solo fisico, ma soprattutto mentale: la fruizione di contenuti, la capacità di recepire informazioni alimentano l’orizzonte cognitivo delle persone favorendo l’espansione del loro spazio mentale, innescando un circolo virtuoso che favorisce la creazione di valore (identitario, sociale, cognitivo) e di un set di valori di riferimento (Sacco e Viviani, 2003).

Garantire condizioni di accessibilità, fisica e mentale, è compito delle istituzioni e delle politiche culturali che hanno la responsabilità di essere abilitanti nei confronti delle proprie comunità di riferimento. Le condizioni di scarsità, materiale e intellettuale, esercitano una influenza negativa su quella che Mullainathan e Sharif (2014) chiamano “larghezza di banda”, la capacità mentale, l’intelligenza fluida, ovvero la risorsa che influenza il modo in cui elaboriamo le informazioni e prendiamo le decisioni. La riduzione della larghezza di banda rende gli individui meno intuitivi, meno lungimiranti, meno consapevoli delle proprie possibilità, con effetti importanti soprattutto in termini di perpetuazione della condizione di scarsità, che crea essa stessa la propria trappola.

Dotare le persone di strumenti cognitivi in grado di modificare il set valoriale vuole dire garantire la loro indipendenza intellettuale, favorire l’accrescimento del loro capitale cognitivo (se lo desiderano con consapevolezza), permettendo di realizzare il loro potenziale e di sviluppare la capacità di esercitare pensiero critico. Questo si traduce in un cambiamento comportamentale che produce effetti sull’individuo stesso e la comunità circostante, più o meno estesa, arrivando a considerare consapevolmente l’altro da sè all’interno del proprio ordine di valori. Perseguire il bene comune vuole dire modificare il proprio comportamento di consumo superando la compulsione, avere strumenti cognitivi per resistere alle lusinghe della commercializzazione dell’economia dell’attenzione, custodire e avere cura del tempo e dello spazio che si abita, riconnettendosi con i luoghi e ritrovando quella placefullness che è storica ed ecologica (Odell, 2020). Il ritorno al luogo, cui nolenti questa l’ultima esperienza del virus ci ha costretti, rappresenta una nuova opportunità di crescita e non solo un tema che ha ricevuto considerevole attenzione nella recente letteratura: lo sviluppo delle aree interne, la rigenerazione urbana, l’imprenditorialità sociale o le reti di imprese sono solo alcuni esempi che alludono ad un nuovo approccio al “fare-territorio” e “fare-comunità”. A questo proposito, una delle dinamiche principali, e certamente con maggiori implicazioni, riguarda i processi e le forme di creazione dei luoghi, quegli spazi fisici e virtuali dove relazioni sociali, economiche e tecnologiche producono significati condivisi (Venturi e Zandonai, 2019). La pluralità di esperienze che nasce dalle tipicità riporta all’attenzione quella che Becattini e Magnaghi (2015) hanno chiamato “la coscienza dei luoghi”: patrimonio di saperi, culture, esperienze, tradizioni, essi stessi beni comuni, che forniscono alle persone la direzione da percorrere per la crescita, svincolandoli dalla subordinazione nei confronti di meccanismi di sviluppo omologanti che impoveriscono di risorse e identità i territori. Svincolare i territori da paradigmi di sviluppo che creano benessere solo per pochi richiede una visione olistica degli stessi e la costruzione di network di relazione, oltre che nuovi strumenti di governance in un’ottica di valorizzazione degli elementi di ricchezza in termini culturali, motivazionali e di competenze (Baldazzini, 2019) e quindi, in ultima analisi, un framework strategico che dia spazio ad una reale partecipazione condivisa ed inclusiva (Sacco e Crociata, 2013).

Un rinnovato localismo, ritrovato anche “grazie” alla riduzione di mobilità che abbiamo esperito per la prima volta, spinge la riflessione intellettuale, definitivamente, sul ripensare i luoghi e il loro potenziale. I modelli di sviluppo esistono (Sacco et al., 2013a,b), ma la loro implementazione passa, ora più che mai, per un riposizionamento della cultura nello spazio che gli è dovuto.

Sabrina Pedrini, Università di Bologna

Pier Luigi Sacco, Università IULM Milano

Bibliografia

Baldazzini A. (2019), “Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società” di Venturi e Zandonai, https://www.pandorarivista.it/articoli/dove-di-venturi-e-zandonai/ [ultimo accesso: 15/06/2020].

Becattini G. (2015), La coscienza dei luoghi: il territorio come soggetto corale, Roma, Donzelli.

Bravo G. (2010), Cultural Commons and Cultural Evolution. Ebla working paper, 5, http://www.eblacenter.unito.it/WP/2010/5_WP_Ebla_CSS.pdf [ultimo accesso: 15/06/2020].

Hess C. (2008). Mapping New Commons, http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1356835 [ultimo accesso: 15/06/2020].

Levi-Strauss C. (1952), Race et Histoire, Paris, Unesco.

Mullainathan S., Shafir E. (2014), Scarcity, Milano, Il Saggiatore.

Odell J. (2020), How to do nothing. Resisting the Attention Economy, Brooklin (NY), Melville House Publishing.

Hess C., Ostrom E. (2003), “Ideas, artifacts, and facilities: Information as a common-pool resource”, Law & Contemporary Problems, 66: 111-146. 

Ostrom E., Gardner R., Walker J.M. (1994), Rules, Games, and Common-Pool Resources, San Francisco (CA), University of Michigan Press.

Sacco P.L., Crociata A. (2013), “A conceptual regulatory framework for the design and evaluation of complex, participative cultural planning strategies”. International Journal of Urban and Regional Research, 37: 1688-1706.

Sacco P.L., Ferilli G., Tavano Blessi G., Nuccio M. (2013), “Culture as an engine of local development processes: System-wide cultural districts. I: Theory”. Growth and Change. Journal of Urban and Regional Policy, 44: 555-570.

Sacco P.L., Ferilli G., Tavano Blessi G., Nuccio M. (2013), “Culture as an engine of local development processes: System-wide cultural districts. II: Prototype cases”. Growth and Change. Journal of Urban and Regional Policy, 44: 571-588.

Sacco P.L., Ferilli G., Tavano Blessi G. (2014), “Understanding culture-led local development: A critique of alternative theoretical explanations”. Urban Studies, 51: 2806-2821. 

Sacco P.L., Viviani M. (2003), “Scarsità, benessere, libertà nel contesto dell’economia dell’identità”. Istituzioni e Sviluppo Economico, 1(3): 5-41.

Samuelson P.A. (195), “The Pure Theory of Public Expenditure”. The Review of Economics and Statistics, 36 (4): 387-389.

Venturi P., Zandonai F. (2019), Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società, Milano, Egea.


Note

(1) Indica ciò che è ottimale per la società, intesa come collettività di soggetti che sono coinvolti nel processo economico. Per un approfondimento si rimanda anche al concetto di efficienza in senso paretiano.

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